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La felicità è ribaltare le parole

Luigi Manconi
Pubblicato il 06-11-2020

Alessandro Bergonzoni ci insegna che il buon uso dei vocaboli migliora le relazioni tra esseri umani

Il libro di Alessandro Bergonzoni Aprimi cielo è pubblicato nella collana Saggi della casa editrice Garzanti, ed è una collocazione perfetta. Perché, da una parte, quegli scritti appartengono alla tradizione della saggistica e, in particolare, di quella non analitica, ma sapienziale, che si affida al frammento, all’aforisma, al verso. D’altra parte, Bergonzoni sta bene in quella collana perché egli è, alla lettera, un uomo saggio: saggio non è necessariamente colui che l’iconografia e l’apologetica classiche ci consegnano, non è l’uomo pacificato e rasserenato. Può essere l’individuo inquieto, se non irrequieto, forse addirittura irriducibile, che, tuttavia, cerca di ricomporre la tensione tra sé e il mondo attraverso l’intelligenza e l’empatia.

Quando penso al Bergonzoni autore-attore, mi viene in mente una mano che impugna un’enorme lente di ingrandimento, come quella del ragazzino investigatore Kalle Blomkvist dei romanzi illustrati di Astrid Lindgren. L’abnorme e acuminata lente d’ingrandimento di Bergonzoni osserva le parole con acribiosa meticolosità, le scruta, vorrei dire le penetra. E là dove io, noi leggiamo-vediamo casa, oppure pera o che so, ornitorinco, egli vede ogni ben di dio o, tanto per fare una citazione acconcia, tutte “le meraviglie del possibile”. Ecco, quest’ultimo titolo-definizione dovrebbe porsi in cima alla futura opera omnia di Bergonzoni, edita dalla stessa Garzanti, da pubblicare magari vicino a Tutte le opere della grande Antonia Pozzi, o, previo accordo sui diritti, nei Meridiani della Mondadori. Il titolo rubato all’antologia di fantascienza curata da Fruttero & Lucentini negli anni Cinquanta, si spiega col fatto che le pagine di Bergonzoni — meglio: tutte le righe, ogni riga — rivelano tesori nascosti, giacimenti profondi e anche bazzecole quisquilie e pinzellacchere. Mi raccomando, tutt’e due: tesori e pinzellacchere, perché l’autore scava e trova grandi illuminazioni e sorrisi puerili, intuizioni filosofiche ed esercizi ludici, e li combina insieme, ottenendo così effetti sorprendenti e dolcemente allucinati, dove malinconie inesorabili si mescolano a scoppi di riso.

Qui va detto che Alessandro Bergonzoni detesta con tutto il cuore la formula “gioco di parole”, con la quale molti tendono a definire la sua scrittura; e se, poi, tale formula viene applicata al suo teatro, si rischia di provocargli un autentico travaso di bile. Penso che, su questo, l’artista bolognese si sbagli di grosso: infatti, se quella espressione viene sottratta al carico insopportabile delle frasi fatte e dei luoghi comuni, e la si considera per ciò che è e per ciascuno dei termini che la compongono, si scoprirà l’essenzialità e la bellezza della formula “gioco di parole”, costituita da due vocaboli primari intimamente collegati all’infanzia. (E cosa c’è di meglio della parola “gioco” nel centenario della nascita di Gianni Rodari?). Poi, procedendo per associazioni mentali, quella scrittura pulviscolare, che si aggrega in arcipelaghi di senso e scopre “nessi” stupefacenti, evoca inevitabilmente l’autore per antonomasia del frammento (io e Bergonzoni non ci lasciamo intimidire dalla sua grandezza), della parzialità eloquente, del particolare talmente significativo da soddisfarsi di sé.

Eraclito, nei suoi Frammenti, sosteneva che l’esistenza fosse in continuo e caotico mutamento e affermava che «la vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera». La vita che si richiama è la traduzione dal greco αἰών (aion), che, in inglese, potremmo rendere con “lifespan”, ossia l’esistere. Nel leggere i frammenti di Bergonzoni si ha la sensazione che il “lifespan” di ognuno sia costellato da intermezzi di imprevedibile felicità che, fra un’azione e l’altra, rischiano di non essere percepiti, accovacciati come sono sotto il tavolo da pranzo, negletti, trascurati. Leggiamo della paziente che si rivolge al medico: «Dottore lei mi chiede molto». E il medico: «È di molto che abbiamo bisogno, a forza di poco ci riduciamo così». E più oltre: «appena nati avevamo una fontanella in testa che si è chiusa, ma ogni tanto escono ancora delle gocce che attraverso le grondaie degli occhi le fanno cadere per annaffiare le piante dei piedi, per aumentare il passo; è così che si diventa degli incamminati e si capisce la differenza tra passo e passato, tra andare e andarsene, tra morto e sorto». 

Al lavoro di Bergonzoni viene naturale accostare termini come cesello e bisturi, strumenti destinati a entrare nel dettaglio, a operare con raffinata precisione, a intervenire con sottigliezza: ma lui sa manovrare anche utensili assai più pesanti e penetranti, quando gli è necessario andare dietro le parole. Perché Bergonzoni non è solo un indagatore del polisemico, cioè dei molti significati di un termine, ma è, forse soprattutto, un ribaltatore del senso, con la stessa destrezza e potenza richieste per rovesciare un macigno, scavare dietro un accumulo, frugare in un’intercapedine: il risultato è quello di trovare il significato dormiente di una parola per scoprire che è proprio quel significato il più importante e rivelatore. Mi raccomando, questo libro va letto tutto, dalla prima parola della dedica fino all’ultima dell’indice: «estasi». Per questo, come scrive l’autore, «bisogna sempre avere in noi l’inatteso, pur se ben nascosto, celato, cioè nascosto nel nostro cielo». E così si torna al titolo del libro: Aprimi cielo è il programma morale di una rivoluzione spirituale e, per ciò stesso, politica. Infatti, se è vero com’è vero che un radicale rinnovamento della lingua può arrivare a incidere nelle relazioni tra i parlanti, un buon uso della parola saprà rigenerare la polis. Speriamo.

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