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Il Sole 24 Ore, Ravasi: Questa nostra carne, tempio dello Spirito

Gianfranco Ravasi Il Sole 24 Ore
Pubblicato il 13-09-2020

Dalla Genesi alle Lettere apostoliche excursus dedicato all'importanza data alla fisicità corporea nelle Sacre Scritture 

Come è noto, è stato un libro rimasto in cantiere per tutta la vita del suo autore, a partire dal ­1855 fino al «letto di morte» nel 1892, come di solito viene definita l’ultima edizione: stiamo parlando della raccolta poetica Foglie d’erba di Walt Whitman. C’è in quei canti un verso che mi ha sempre impressionato, tanto da ricordarlo a memoria senza esitazione: «Se c’è qualcosa di sacro, il corpo umano è sacro». Un pensiero che s’intreccia spontaneamente con un’altra asserzione nata dalla penna di un personaggio molto diverso, Nietzsche, che negli anni ­1883-85 stendeva l’opera della sua maturità, Così parlò Zarathustra, ove si legge: «Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza». Ma se vogliamo risalire a una sorgente ben più antica e radicale, ecco l’apostolo Paolo che non esitava a interpellare i cristiani di Corinto così: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi?» (­Corinzi 6,19).

Ecco, dunque, il paradosso: quella corporeità così carnale e muscolare, materiale e sessuale, diventa segno di sacralità, di sapienza, persino di divinità, anche perché l’apice della fede cristiana è nell’affermazione provocatoria dell’inno-prologo del quarto Vangelo «In principio era il Verbo e il Verbo era Dio... E il Verbo carne divenne» (Giovanni ­1,1.14). Anzi, il vocabolo latino corpus-corpo – che metaforicamente applichiamo anche a raccolte di testi scritti o a gruppi sociali (i corpi militari o le corporazioni, ad esempio) - ha probabilmente nella sua matrice etimologica l’indoeuropeo krp-/krache significa «bellezza, forma».

Quando si parla di corporeità si dovrebbe, allora, trattare innanzitutto non tanto di fisicità, di biologia, di medicina, di sessuologia né di carnalità, bensì di uno dei simboli epifanici dello spirito. Non stupisce, allora, che la Bibbia si disinteressi quasi totalmente dell’anima, ponendosi in alternativa antropologica rispetto alla classicità greca, per attestarsi proprio sul corpo, al punto tale che il vocabolo ebraico nefesh, che la versione greca antica dei Settanta per 680 volte su 754 occorrenze rende con psychê, in realtà indica l’«essere vivente» nella sua compattezza esistenziale, interiore e materiale, vitale e mortale. Per questo, senza esitazione, Tertulliano conierà il motto latino assonante caro salutis cardo, «cardine della salvezza è la carne», mentre l’eucaristia è il «corpo di Cristo», la Chiesa è ugualmente suo corpo (sempre stando a Paolo) e l’escatologia non è l’immortalità dell’anima ma la risurrezione della carne/corpo. Due vocaboli che, sempre per stare all’indoeuropeo, si apparentano perché le radicali krp-/kra- di corpo e kreu- di carne alla fine sbocciano nel creare latino. Questa lunga premessa-excursus, che potrebbe dilatarsi a dismisura, è destinata a orientare verso un quaderno monografico, molto suggestivo, di una rivista intitolata «Parola Spirito e Vita» (laddove, però, lo Spirito non è l’anima ma la divinità): il suo numero ‑­, che è in realtà un volume a sé stante e, quindi, acquistabile a parte senza abbonamento generale, s’intitola appunto Il Corpo. Si noti la maiuscola, nella linea della nostra considerazione preliminare. La trama è diacronico-sincronica al tempo stesso, perché parte dal polo primigenio della Bibbia - ossia dai racconti della creazione della Genesi (cc.1-3), dal corpo che diventa oracolo e simbolo nei profeti, dal corpo orante, dolorante e corruttibile, dal corpo di Gesù, medico-salvatore, dal corpo sacrificale e risorto di Cristo – per approdare fino al polo ultimo della psicologia contemporanea.

Naturalmente entro questi due estremi si distende l’arco della millenaria vicenda cristiana che si è lasciata affascinare dalla «spiritualità» greca, fino all’ascesi fustigatrice del «corpo di peccato» ma che ha registrato in questo spettro cromatico teologico pure ben altri colori.  Come non pensare a san Francesco e al suo Cantico delle creature o al Francesco papa che, sulla scia evangelica, definisce i poveri e gli ultimi «carne di Cristo», mentre i martiri cristiani - questa volta nel solco anche di san Paolo – offrivano «i loro corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Romani 12,1­)? Lasciamo ai lettori di quel fascicolo di ricomporre questo ritratto del Corpo, che forse abbiamo scoperto nella sua fisicità simbolica proprio attraverso la pandemia del Covid-­19, persino al livello estremo rappresentato dalle salme che non erano più «corpi» venerati e amati, ma solo cadaveri. Con buona pace del Pasolini della Supplica a mia madre, non è possibile avere solo «un’infinita fame d’amore di corpi senz’anima», perché le due componenti sono inscindibili in chi ama veramente. Con Péguy possiamo, perciò, usare senza imbarazzo l’ossimoro «anima carnale», confessando

con Turoldo: «Inquieta anima mia quasi / carne... Egli [Dio] non è lontano, / è nel tuo mare di sangue».

Abbiamo già accennato all’immagine paolina della comunità cristiana come «corpo di Cristo» (almeno sei volte ritorna questo tema nel suo epistolario). È proprio con una di queste asserzioni - «noi siamo, benché molti, un solo corpo» (­Corinzi ­10,17) - che Romano Penna, uno dei maggiori neotestamentaristi a livello internazionale, intesta il suo saggio, frutto di un approccio e di una ricerca sempre rigorosa ma dal dettato altrettanto limpido. Il cuore della sua analisi è proteso verso l’unità di questo corpo partendo da una componente che può sembrare a molti paradossale: «Il Gesù terreno, da laico com’era non ha fondato in senso letterale nessun sacerdozio, anche perché non ne parla mai. È stata piuttosto la fede pasquale che, approfondendo il mistero da lui vissuto fino all’ultimo, ha visto ed evidenziato in Gesù Cristo l’esercizio di un nuovo tipo di sacerdozio senza paragoni». È la stessa Lettera agli Ebrei, sulla base di una comparazione col  sacerdozio ebraico, di sua natura genealogico ed ereditario (legato com’era all’appartenenza tribale levitica), che dichiara senza imbarazzo: «Se Gesù fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote... È noto, infatti, che il Signore nostro è germogliato dalla tribù di Giuda, e di essa Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio» (8,4 e 7,­14). Altrettanto forti sono state le parole di papa Francesco: «Tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici. Nessuno è stato battezzato prete o vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è un segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare».

Questo, però, non esclude che esistano dei «ministeri» specifici, a partire da quelli di fondazione come gli apostoli o di servizio come i «diaconi». Essi, però, non devono regredire alla tipologia rituale anticotestamentaria o a quella pagana della classicità greco-romana. Lo studio di Penna, che si distende fino a raggiungere i primi secoli cristiani, è dedicato a delineare proprio i due profili costitutivi. Da un lato, è in causa la laicità, presente già nel fondatore Cristo, e che si esprime nei molteplici carismi dei fedeli delle varie comunità. Essa si manifesta sia nel culto domestico e non templare, sia nella stessa morale paolina segnata da una struttura non sacrale (legge e libertà, coscienza, etica generale, nesso con la politica). D’altro lato, abbiamo il sacerdozio cristiano che ha il suo archetipo esclusivo nel «sommo sacerdote» Gesù, un prototipo certamente non genetico né rituale. E che è partecipato anche nella dimensione comunitaria e individuale dell’intera Chiesa, «corpo di Cristo ». Un sacerdozio che ha, però, una sua identità e specificità ministeriale in alcuni soggetti attraverso un’ordinazione con l’imposizione delle mani. Qui il discorso s’allarga anche nella Chiesa successiva con l’elaborazione di ulteriori precisazioni teologiche e di contrassegni come il celibato o la veste sacra. Sintetizzato così, il discorso sembra fin scontato. In realtà le pagine di Penna, fittamente documentate, aprono squarci sorprendenti e, alla fine, si inquadrano nel dibattito sempre vivace del contrappunto tra fede, religione, laicità, secolarità, purtroppo spesso pronti a degenerare in clericalismo e laicismo, sacralismo e secolarismo. Alla radice c’è sempre quella scissione esclusivistica tra anima e corpo, tra spirito e carne da cui siamo partiti. Gianfranco Ravasi, Il Sole 24 Ore del 13 settembre 2020

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