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Il Manifesto di Assisi e un nuovo modello di sviluppo, i punti nodali

Antonio Galdo, direttore nonsprecare.it sanfrancesco.org
Pubblicato il 29-01-2020

Il successo e l’interesse con i quali è stato accolto il «Manifesto per un’economia a misura d’uomo contro la crisi climatica» non devono sorprendere. Da tempo nell’opinione pubblica sale la domanda di un nuovo umanesimo, che restituisca alla persona umana la sua centralità. Nella società, nell’economia, nella politica. Nello stare insieme, tra uomini e tra cittadini. Abbiamo finalmente imboccato la strada per l’uscita dal lunghissimo ciclo dell’Io e la sfida per affrontare la crisi, diciamo meglio: la catastrofe, climatica, in chiave sostenibile, non può che essere affrontata, come ricorda il Manifesto, se non attraverso una larga partecipazione. Cioè con il ritorno al Noi. Inoltre, da Assisi si prova, senza avere la presunzione di ricette miracolistiche, a mettere in campo qualche paradigma sapendo che il nuovo umanesimo è una chiave necessaria, ma non sufficiente, per proporre un nuovo modello di sviluppo.

Il mondo occidentale è in transizione, ricordiamolo. E con esso tutte le società dominate da un ceto medio scosso da due paure: la sicurezza e il blocco dell’ascensore sociale. Il vecchio modello di sviluppo, motore propulsivo della rivoluzione liberista Thatcher-Reagan, è andato in crisi, ha esaurito la sua spinta propulsiva. Non regge più l’impianto teorico: il pensiero unico pronto a demolire tutto ciò che non abbia una dimensione individuale (dallo Stato agli organismi della rappresentanza) non fornisce risposte da quando è esplosa la Grande Crisi, il Big Bang del modello liberista. Serve altro. E nella sostenibilità, nelle opportunità che offre più che nei problemi che pone, il Manifesto di Assisi coglie un perno sul quale costruire una piattaforma di crescita, di rilancio, e non di resa ai pericoli di una lunga stagnazione economica e di una graduale ma costante perdita di coesione sociale. Chiariti i meriti del Manifesto e delle energie che ha mobilitato, ci sono tre interrogativi cruciali da sciogliere per dare davvero slancio al nuovo modello di sviluppo qui proposto. Il primo riguarda il ruolo della politica. La sostenibilità siamo noi, ciascuno di noi. Con il proprio stile di vita, le proprie scelte, il proprio modo di stare al mondo.

Fa differenza, e non poca, un cittadino che, senza nascondersi dietro i ritardi della pubblica amministrazione, mostra senso civico con una corretta raccolta differenziata, difende il bene comune della sua città e del suo quartiere, ha la sensibilità di ascoltare le ragioni di chi sta indietro. E questa differenza, una volta che si riesce a diffondere, contamina e produce anche un effetto emulazione in quanto contribuisce a convincere che la scelta della sostenibilità, innanzitutto nella dimensione individuale, conviene. Solo così minoranze, che non a caso definiamo in modo improprio portatrici di «buone pratiche», possono diventare maggioranze. Attraverso un punto di osservazione molto ampio, il sito sulla sostenibilità, Non sprecare, che ho fondato e dirigo da ormai dieci anni, mi è chiaro quanto, anche grazie alla potenza del web, sia possibile spingere nella direzione dei piccoli gesti. Piccoli e quotidiani. Piccoli e potenti. Rivoluzionari rispetto alle cattive abitudini, dettate dagli automatismi, dall’ignoranza e dall’indifferenza. Anche perché, come avvertiva Benedetto Croce, «da piccole finestre si possono sognare grandi cambiamenti». E la sostenibilità ha bisogno di produrre e moltiplicare sogni possibili.

Ma la dimensione individuale non basta. Serve anche altro, e qui entriamo nella specificità della dimensione politica. Tutte le energie che gravitano nell’universo della sostenibilità, riflettiamoci un attimo, sono ancora piuttosto sparse, frastagliate, non hanno un ancoraggio politico. Eppure portano freschezza, autenticità, proposte nuove, voglia di cambiamenti necessari. In realtà, dove la globalizzazione non ha funzionato ( e ciò non deve cancellare i suoi, non pochi, meriti) è proprio nella dimensione politica. La tecnologia, combinata alla finanza, con una velocità impressionante, ha letteralmente sovvertito le gerarchie universali, la politica ha perso il suo primato lasciando campo libero ai suoi surrogati e ai peggiori umori, anche giustificati, delle opinioni pubbliche. E di chi è rimasto stritolato da una globalizzazione senza governo, dal far west del profitto che ha cancellato anche solo qualsiasi ipotesi di politiche di redistribuzione dei redditi.

Come può funzionare un mondo dove il denaro, le merci, l’economia, sono globali, e invece gli strumenti di governance politica sono nazionali, super nazionali, e dunque locali? Un mondo, per capirci, dove il tweet di un presidente degli Stati Uniti può modificare all’istante l’andamento di tutti i mercati borsistici, mentre non c’è un organismo sovranazionale, dall’Onu all’Unione europea, che riesca davvero a svolgere una funzione di governo attiva e non sia prigioniero di un paralizzante meccanismo di veti incrociati. Dunque, per la sostenibilità servono scelte politiche e globali, oltre che, ovviamente, locali. Al momento, sotto questo punto di vista, negli ultimi anni abbiamo visto solo due atti politici di peso, e li definisco tali in quanto, tra i loro meriti c’è anche il vuoto che hanno colmato, il silenzio che hanno rotto.

L’enciclica Laudato Sì non ha precedenti, nell’affermare l’obbligo di prendersi cura della casa comune, come manifesto di un cambiamento che riguarda «gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono la società». Nello stesso modo, l’Agenda 2030 dell’Onu con i 17 obiettivi per lo Sviluppo sostenibile circoscrive un progetto politico ben definito, sia nei punti di partenza, con relative criticità, sia negli obiettivi. È chiaro che Papa Francesco parla innanzitutto alle nostre coscienze, mentre l’Onu ci chiama in causa come governati e governanti, ma in entrambi i documenti c’è un elemento che va ben nesso in evidenza. Ed è un’idea integrale dell’ecologia che trascende il linguaggio delle scienze esatte, qui cito l’enciclica, «e ci collega con l’essenza dell’umano». Un ambientalismo che, come viene scolpito nei 17 punti dell’Agenda 2030, non è più solo protezione della Natura, di cose e di luoghi, ma sfonda nella lotta alla povertà e alla fame, nel disegno delle nuove città e nella necessità di garantire accessi paritari ai servizi essenziali, dall’acqua alla sanità fino alla formazione. Bene: non esiste nulla di più politico rispetto a indicazioni così larghe e così radicali.

E qui veniamo al secondo interrogativo: il ruolo dell’Europa, della quale siamo parte integrante, specie per le scelte nel campo della sostenibilità dove possiamo vantare diversi primati , dall’economia circolare all’energia prodotta da fonti rinnovabili. Quanto l’Europa sia paralizzata e impotente non abbiamo bisogno di ricordarlo. Eppure invece di cavarcela con il solito lamento da grida manzoniane, proviamo a guardare il bicchiere mezzo pieno, mettendo in fila i segnali positivi che arrivano dal Vecchio Continente. A fronte di una politica in eclissi, in quasi tutta Europa, e non solo nelle tradizionali roccaforti del Nord, i movimenti politici ambientalisti hanno guadagnato enormi consensi nell’opinione pubblica. In molti paesi, pensiamo solo alla Germania, si avviano a essere determinanti. Studiandoli da vicino, anche attraverso il profilo dei loro leader e il contenuto dei loro programmi, sul sito Non sprecare abbiamo raccontato come l’ecologismo portato avanti da questi movimenti-partiti sia sul piano politico molto promettente.

Esprime un nuovo modello di sviluppo, declinandosi a 360 gradi; non ha barriere ideologiche (non a caso in Europa abbiamo verdi alleati con il centrodestra e con il centrosinistra); mette in campo nuove generazioni di classi dirigenti, fornendo risposte a quelle due domande, già citate, che salgono dalle società (sicurezza e ascensore sociale bloccato). Ancora, restando alla metafora del bicchiere mezzo pieno: l’Europa ha le risorse finanziarie per mettere benzina nei motori del new deal verde. I soldi non sono un problema. Semmai il punto è come e quando si spendono. E la risposta passa per la rottura, anche traumatica, di un equivoco rappresentato dal ruolo dei paesi dell’Est. Fin quando questi paesi hanno potuto rifornirsi ai generosissimi rubinetti dell’Unione europea per riprendersi dal sottosviluppo nel quale erano piombati, per loro l’alleanza europea era un dogma. Guai a toccarla. Appena risolti i problemi, e arrivato il momento nel quale questi paesi devono dare il loro contributo, non solo economico ma innanzitutto politico, sono arrivati i veti. A pioggia. È stato così per la distribuzione degli immigrati in arrivo, ed è così a proposito delle politiche energetiche e ambientali. Politiche costosissime, che hanno bisogno di un’enorme quantità di capitali e di una collaborazione di tutti i partner dell’Unione. A questo punto, se i paesi dell’Est vorranno continuare a remare contro rispetto alle scelte necessarie, sarà bene usare l’arma del realismo, e prendere in considerazione l’ipotesi di un’Europa a due velocità, che non rinunci alla sfida della sostenibilità per i veti e gli egoismi di qualche nazione.

Infine, il terzo interrogativo ha molto a che fare con le radici spirituali e l’impronta umana e territoriale del Manifesto di Assisi. San Francesco, lo ricorda in modo esplicito l’enciclica Laudato Sì, è l’esempio, e non solo per i cattolici, di un’ecologia integrale. La sua vita, da mistico e da pellegrino, è stata tutta spesa preoccupandosi per la natura, per la giustizia verso i poveri, per l’impegno nella società e per la pace interiore. Nessuno più e meglio di lui può ispirare un Manifesto per un’economia a misura d’uomo e contro la crisi climatica. Un Manifesto per l’autentica sostenibilità.

E aggiungo una cosa in più: non è né rilevante né preoccupante se ci sia qualche azienda che sia in campo dalla parte di questo modello di economia circolare senza averne i requisiti. Il greenwashing fa parte del gioco, bisogno metterlo nel conto, specie in questa fase di transizione, e non esiste un’impresa al mondo che oggi possa prescindere nella sua comunicazione, sia ai clienti-consumatori sia a tutti i suoi stakeholders , dalla parolina magica sostenibilità. Qui si tratta piuttosto di tenere gli occhi aperti, di distinguere il grano dal loglio, e di spingere le aziende a completare, sulla spinta di una convenienza e di una responsabilità sociale (parte integrante del nuovo umanesimo), il loro percorso lungo la rotta del nuovo modello di sviluppo.

Ciò che ancora non convince è un altro elemento che possiamo sintetizzare con questo concetto: la sostenibilità, al momento, è un lusso. Una scelta dei ricchi e per i ricchi. Sia nella sua dimensione individuale sia in quella collettiva. Sono i ricchi, o i molto benestanti, che possono permettersi i nuovi consumi sostenibili, dall’auto elettrica allo spazzolino in bambù. E sono le nazioni ricche che possono permettersi di mettere sul tavolo decine di miliardi di euro per liberarsi dal carbone, mentre in paesi dell’Africa manca ancora l’elettricità. Fin quando la sostenibilità resterà una cosa per ricchi non ne avremo colto tutte le opportunità. Anzi. Correremo il rischio di alimentare nuove fratture sociali nel mondo dove la globalizzazione ha creato più concentrazione di ricchezza e ha allargato la forbice che separa minoranze di ricchi da maggioranze in declino economico. Una sostenibilità di classe non coglierebbe i contenuti della Luadato Sì, che spesso richiama il tema di «un contesto iniquo», e non avrebbe senso rispetto all’Agenda 2030 che tra gli i 17 obiettivi comprende anche quello di ridurre, e non di aumentare, le diseguaglianze. E una sostenibilità a misura di ricchi non piacerebbe neanche a San Francesco, che la sua vita l’ha spesa tutta dalla parte dei poveri.

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