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Il lavoro fragile delle donne

Roberto Mania, La Repubblica Pixabay
Pubblicato il 03-09-2020

Siamo diventati il Paese del part-time involontario

La recessione porta il lavoro femminile. Era successo dopo il tracollo di Lehman Brothers nel 2008, sembra accadere anche questa volta nel dopo depressione da lockdown. Nel mese di luglio le persone occupate in Italia sono aumentate di 85 mila unità rispetto al mese precedente: ben 80 mila sono donne. Insomma l’occupazione è cresciuta (mese su mese, mentre in un anno si è perso oltre mezzo milione di posti di lavoro) solo nella componente femminile, con quella maschile rimasta sostanzialmente ferma. Perché? Premesso che le rilevazioni mensili vanno prese con le pinze dal momento che non sempre indicano una tendenza e spesso possono essere condizionate da fattori contingenti, quel dato dell’Istat però non è afono, parla e riesce a dire molte cose sul mercato del lavoro italiano. Basta volerle ascoltare.

Dice intanto che la diseguaglianza di genere ormai strutturale nel nostro mercato del lavoro è stata aggravata dalla pandemia. Il Covid 19 ha provocato una crisi economica senza precedenti, per estensione, per caratteristiche, per profondità. Il mondo si è chiuso. È stata nel contempo una crisi di domanda e una crisi di offerta per questo sono saltati principi e regole che sembravano inattaccabili: dal patto di stabilità in Europa alla lotta all’inflazione nella politica monetaria della Federal Reserve americana. Così dentro i nostri confini — nell’inedita recessione pandemica — si assisteva nel silenzio anche ad una novità: a calare era soprattutto, e per la prima volta in una crisi, il lavoro delle donne non quello maschile come nelle altre recessioni. Conseguenza del fatto che è nei servizi (sbarrati durante le terribili giornate di marzo e aprile) la quota maggiore di lavoro femminile. Dunque con la riapertura delle attività (dal commercio al turismo) il lavoro femminile ha avuto uno scatto. E bisognerà vedere con le prossime rilevazioni statistiche se si è trattato esclusivamente di un mero rimbalzo “tecnico” o se, invece, come si vide nella recessione del 2008 soprattutto nelle nostre regioni del Mezzogiorno, le donne, più flessibili, sono entrate nelle frange marginali del mercato del lavoro per compensare la perdita di reddito familiare determinata dagli uomini, perlopiù addetti nel settore industriale, licenziati o collocati in cassa integrazione.

Sappiamo poco di quelle 80 mila donne che a luglio hanno trovato lavoro ma possiamo dedurne le caratteristiche guardando alla composizione dell’occupazione italiana dove la componente femminile resta decisamente inferiore a quella maschile: il divario è di circa 18 punti contro una media europea di dieci. E c’è una forte responsabilità della politica se la partecipazione delle donne nel nostro mercato rimane così bassa. Nei Paesi in cui la conciliazione vita-lavoro ha guidato le politiche per la famiglia — non come da noi dove è prevalsa una cultura paternalista e una visione maschilista — i tassi di occupazione femminile sono molto più alti così come l’indice di fecondità.

Il nostro declino demografico passa da qui: poco lavoro e pochi figli. Ma il lavoro delle donne è in media anche un lavoro più fragile rispetto a quello maschile. Siamo diventati il Paese del part-time involontario, subito da chi, invece, vorrebbe il tempo pieno con le certezze che ne conseguono. Una delle tante flessibilità a vantaggio delle imprese, che non ci ha mai fatto accrescere la produttività e nemmeno la produzione. Anzi. Il 60 per cento delle donne che lavora con un contratto a tempo parziale non l’ha scelto e, dunque, non lo utilizza come uno strumento per conciliare i propri tempi di vita. Ma nel 2007 — sono anche questi dati dell’Istat — il part-time involontario riguardava poco meno del 35 per cento delle donne. Quasi un’altra epoca. E così la cavalcata del part-time involontario, che insieme alle donne “colpisce” i giovani, con tutto il noto armamentario delle altre flessibilità, ha contribuito a stravolgere la composizione dell’occupazione. Ma questo non deve essere il lavoro delle donne. È facile da capire. Ed è una lezione che la crisi sta provando ad impartir

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