Le visite dei pontefici
Intervista a Pawel Ptasznik suo stretto collaboratore
Negli occhi profondi, nello sguardo cristallino di Monsignor Pawel Ptasznik stretto collaboratore di Karol Wojtyla, sembrano susseguirsi immagini, ricordi, parole e concetti, come una sequenza di fotogrammi di un film. Un film però non basato sulla fantasia, ma su vita vissuta. Sono gli anni - dal 1996 - passati a lavoro in Segreteria di Stato vaticana, accanto a San Giovanni Paolo II. A ogni domanda, Ptasznik cerca sempre con quel suo particolare sguardo di ritornare a quei giorni che, in fondo, non sembrano neppure così lontani nel tempo, bensì sempre presenti nella sua memoria, quasi ad accompagnarlo nel suo cammino. E lo fa non senza commozione: è la tenerezza del figlio che ricorda il padre. Cordialità, semplicità, profondità: sembrano essere davvero le virtù - o se le volete chiamare “qualità” - trasmesse a lui, proprio da Giovanni Paolo II. Insomma, si avverte quello che gli americani chiamano “printing”. Ptasznik - per molti, don Paolo, semplicemente, come ama farsi chiamare - fu chiamato dalla Santa Sede per aiutare il Santo Padre nella stesura di molti documenti, omelie, encicliche, per sovrintendere alla voluminosa corrispondenza. Wojtyla dettava, lui scriveva su un portatile.
Il ritratto di Giovanni Paolo II che fuoriesce dalla nostra cordiale conversazione - ci sono casi in cui il termine “intervista” può apparire alquanto inappropriato, visto la semplicità e al contempo la profondità del colloquio - è quello sì di un santo, di un papa, ma soprattutto di un “uomo buono”. Questo è il termine che viene in mente, pensando a Giovanni Paolo II. Un uomo buono. E così, tutto l’immaginario del pontefice con il carattere ben deciso, “quadrato” è come se fosse integrato da uno ancora più ampio: un uomo che amava mettersi in discussione, nel dialogo, per cercare la verità, la cosa più giusta da fare, da dire.
Sì, perchè per Wojtyla, le parole erano molto importanti. “Amava cercare la parola più appropriata, più giusta. Sentiva una profonda responsabilità della parola. I documenti che mi dettava comprovano questo. Il lavoro che c’era dietro a ognuno denota proprio questo amore per la parola, e soprattutto per l’approfondimento”, ci dice Monsignor Ptasznik. E, mentre dice ciò, non può non venirmi in mente la preparazione letteraria, teatrale che Karol Wojtyla aveva. Non a caso faceva parte di quel movimento culturale nella Polonia occupata dai nazisti, chiamato “Teatro di Parola”.
Una delle immagini che mi sovviene subito, è quella di un pontefice sorridente. Tante volte lo abbiamo visto ridere - e, in certe occasioni, proprio di cuore - davanti, ad esempio, ai lazzi di alcuni pagliacci, o sorridere con bontà paterna davanti ai bambini.
Ma Giovanni Paolo II, in privato, conservava sempre questo spirito? Come era il pontefice in privato?
“Beh, sicuramente era un uomo che amava ridere. E molto. Bisogna precisare che difficilmente era lui ad “iniziare” - diciamo così - a scherzare, o a fare battute. Ma gli piacevano tanto, questo sì. Si rideva di episodi del passato o del presente. Ma, non rideva, ovviamente, mai di persone non presenti ai suoi incontri. Rideva di buon gusto se si trovava ad ascoltare qualche barzelletta, ad esempio. Mi viene in mente quando incontrava l’ausiliare del Vescovo di Polonia, Mons. Małysiak. Capitava spesso. Małysiak, era solito, addirittura portare con sè una raccolta di barzellette che aveva ascoltato per ridere assieme al papa. E Giovanni Paolo II gradiva molto tutto questo. E, in quelle occasioni, dimostrava tutta la sua semplicità, la sua cordialità di accoglienza verso l’altro. In privato, Giovanni Paolo II, non aveva nulla dell’aurea del pontefice che tutti possono pensare. La sua cordialità, la sua vicinanza con chi gli stava di fronte spezzava - in un attimo - tutto questo. Ti trovavi davanti a un sacerdote. A un uomo che ascoltava con grandissima attenzione ciò che gli dicevi. E’ stato così, ad esempio, al mio primo pranzo con lui. Ero un giovane sacerdote e a quel pranzo, le prime domande che il pontefice mi rivolse furono per la mia terra, per la mia famiglia. Ma queste domande - si sentiva bene - non erano domande di cerimoniale, o altro. Erano proprio di vero interesse per la persona. Comprendevi benissimo, stando davanti a lui, che ti potevi aprire senza problemi. Questa sua umanità si avvertiva alla sua presenza e a me fece molto stupore che un pontefice potesse essere così semplice. Per questo, il dialogo assieme a lui diveniva così sorprendentemente spontaneo”.
Veniamo, ora, al lavoro con il pontefice…
“La stessa umanità era presente anche nel lavoro che svolgevamo. Avveniva fra noi un vero dialogo, anche nelle occasioni di lavoro. Ricordo, in particolare, una mattina che mi trovavo a lavoro con lui. Alle dieci si iniziava. Il papa dopo la messa privata, la colazione, andava nella terrazza vaticana per la meditazione e poi scendeva nel suo studio per iniziare a lavorare. Quella mattina, ero un bel po’ rosso in viso, essendo stato a sciare. E lui, subito, si accorse di questo: “Sei andato a sciare, vero eh?”, mi disse. E io: “Sì, Santo Padre. Sono stato a Campo Felice (una località sciistica, vicino Roma n.d.r)”. E Giovanni Paolo II, allora, con un bonario sorriso e un po’ di malinconia mi disse: “Eh, beato te. Una volta ci andavo anche io, ma ora, non posso più…”. Praticamente, prima del duro lavoro, c’era sempre spazio alle note personali. Era la sua umanità che lo spingeva a ciò. Poi, si iniziava seriamente. Incominciava a dettare - dettava piano, lentamente - e, molto spesso, a fine paragrafo mi chiedeva: “Tu che ne pensi?”. La prima volta, sentendo quella domanda, mi trovavo sinceramente in difficoltà, diciamo. E’ facile immaginare cosa potesse provare un giovane sacerdote, in quel momento. Avevo di fronte il papa! Poi, però, compresi che il pontefice lo chiedeva perchè volesse sapere realmente il mio pensiero: avevo libertà di parola, anzi dovevo esprimere realmente il mio pensiero. Lo chiedeva per confrontarsi, e così più e più volte iniziavamo un dialogo sul tema dello scritto. Molte volte mi chiedeva di appuntare i nostri dialoghi per poi rifletterci sopra”.
E il pontefice ha mai cambiato...come dire...direzione di pensiero, dopo il confronto?
“Sì. Ad esempio, ricordo che durante la stesura della Lettera agli anziani, feci un appunto. Vedevo che il Santo Padre insisteva - giustamente - su un tema: il tempo della vecchiaia (che tra l’altro, in polacco, ha un termine che più si accosta al vostro di “saggezza”, diciamo) era visto nella Lettera, soprattutto come il tempo di preparazione, di attesa, prima di contemplare il volto di Dio. Giustissimo, ovviamente! Però, feci notare che magari sarebbe stato non male aggiungere, integrare questa riflessione anche con “qualcosa” che riguardasse il ruolo degli anziani nella società: nella loro possibilità di donare ancora qualcosa alla società, alle famiglie, ad esempio. Ne parlammo, dialogammo su questo. E così lui sposò questa direzione non pensata precedentemente”.
Uno dei lati che molto spesso non viene approfondito è quello di Giovanni Paolo II “mistico”, se vogliamo. Può dirci qualche parola su questo, lei che è stato accanto per così tanto tempo con lui?
Lui non ha avuto quest’aurea di mistico, per niente. Quando stavi con lui, quando pregava nella cappella, sapevi che era sì raccolto (era praticamente un tutt’uno con Dio), in dialogo intimo e profondo con Lui, ma - bisogna dire - che dall’altra parte anche in quegli attimi, non dimenticava mai l’umanità. Vi era in lui un equilibrio perfetto tra l'interiorità e l’attenzione alle persone, come quando capitava spesso - seppur in meditazione, seppur in preghiera - che ogni tanto guardasse l’orologio se sapeva che doveva poi incontrare qualche persona. La sua attenzione all’umano, il suo rispetto per gli altri, lo richiamavano alla vita di questa terra, e così era ben cosciente di quanto tempo poteva essere riservato alla preghiera. Sì, insomma, non era preso dall’estasi. Aveva a cuore, molto, le richieste di preghiera che gli arrivavano. Questo, sì. Io stesso sono stato testimone, in prima persona. Una volta capitò che gli chiesi di pregare per un fratello di un mio amico. Era malato di leucemia. Lui rispose: “Certo che pregherò”. E io ero consapevole che non era solo per “cerimonia”. Avrebbe pregato davvero per quella persona. Sta di fatto che quando doveva essere operato, il giorno stesso fu colpito da una febbre. Dopo quella febbre, la leucemia non c’era più...la santità...”.
Un’ultima domanda, guardando a questo nostro presente così travagliato. Immaginiamo, per un attimo, Giovanni Paolo II, ora, ancora fra noi. Cosa farebbe, oggi, in questa situazione? Quali parole direbbe?
Beh, questo è difficile dirlo, è difficile immaginarlo. Sicuramente, il pensiero sarebbe andato subito alle misure sanitarie per limitare lo spargimento della malattia, del covid19. Non so se sarebbe stato estremo nelle decisioni, questo non credo. Non credo che forse avrebbe sospeso le messe. Avrebbe chiesto grande solidarietà fra la gente, come sta chiedendo Papa Francesco. Avrebbe pregato tanto, sicuramente. E avrebbe dato sicuramente tante parole di speranza e coraggio!
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