francescanesimo

La medicina dei francescani

Paolo Capitanucci Cesare Magati
Pubblicato il 22-08-2019

Francesco dal Bosco e Cesare Magati: frati si prendono cura dell’uomo malato

Pur non essendo stata costantemente nel tempo la medicina una delle occupazioni primarie dei religiosi, comunque molti frati studiarono e praticarono con profitto l’arte della cura. 

In Italia per esempio le varie famiglie francescane dettero vita a grandi farmacie ed infermerie conventuali dotate di biblioteche specializzate con libri di medicina e chirurgia.


Molto interessanti sono inoltre le relazioni dei padri francescani medici e missionari nelle Filippine, in Cina ed in Giappone riguardo la medicina cinese e giapponese. Sembra infatti che essi avessero perfettamente integrato ed armonizzato le conoscenze mediche apprese prima in Occidente con quelle proprie della tradizione medica orientale. Sempre al servizio dei sofferenti, i frati affiancavano dunque all’opera di evangelizzazione quella dell’assistenza ai malati e, a quanto pare, a loro si deve, tra il 1601 ed il 1613, persino la fondazione degli ospedali di Kyoto, Nagasaki, Osaka, Suruga e Asakusa.


Senza perdersi in un lungo ed impersonale elenco di nomi, si vuole qui solo ricordare l’esempio di due frati cappuccini che si sono interessati alla pratica medica e su di essa hanno scritto.

Il primo, Francesco dal Bosco detto il Castagnaro, nacque nella circoscrizione del Valdobbiadene nel 1564 ed il 21 ottobre 1588 entrò nell'Ordine dei Frati Minori Cappuccini. 

Il soprannome Castagnaro è da ricondurre al fatto che egli, prima del suo ingresso nell'Ordine, aveva appreso l’arte di “conciar botti”.


Data la mancanza di una solida formazione culturale Francesco rimase, nonostante le molteplici e lodate sue attività, un fratello laico.


Padre Francesco Pizzetta da Venezia nella sua Relatione delle vite esemplari di molti padri Cappuccini così ricorda fra Francesco: “Morì nel nostro luogo di Venezia l'anno 1640, nel mese di marzo con dolore Universale di tutta la Provincia per la perdita di un frate tale così quanto alla bontà della vita, come quanto alla scienza e pratica dell'infermeria”.


Essendo, come detto, privo di istruzione universitaria svolse all’inizio, come voleva la consuetudine del tempo, mansioni di ortolano e cuoco. Divenne in seguito, probabilmente spinto dai superiori, data la sua carità e disponibilità nell’ accudire i malati, aiutante di spezieria ed infermeria. 

Al suo nome è legata La prattica dell'Infermiero, operetta che riscosse dopo la morte del suo autore un discreto successo di pubblico e conobbe varie edizione. Il titolo completo del trattatello, una sorta di vademecum ad uso dei frati infermieri, è La prattica dell'infermiero di fra Francesco dal Bosco di Valdobbiadene, detto il Castagnaro, Ninorita Capuccino. Nella quale con osservazione fondate nell'uso di moltissimi anni s'addottrina l'assistente e caritativo infermiere per ben conoscere e, ne'casi repentini, applicar i remedij proportionati a' mali de suoi infermi.


Nell’opera, divisa in sei parti, si danno elementari nozioni di fisiopatologia sulla base della teoria umorale ippocratico-galenica all’ora in voga, si insegna l’esame dei polsi e delle urine, si segnalano i giorni critici, si spiega il modo corretto di applicare le ventose e le sanguisughe; la sesta parte in particolare è una sorta di piccolo trattato di farmacologia.


Passando ora da quella che si potrebbe dire “medicina popolare” a quella dei “dotti”, non si può non citare il nome di Cesare Magati (1577-1647), uno dei più grandi uomini di scienza che scelsero di percorrere la via indicata da Francesco d’Assisi.


Magati, entrato tra i cappuccini nel 1618 all’età di 41 anni, fu poi conosciuto con il nome di religione di Liberato da Scandiano. Dopo aver studiato medicina a Padova e Bologna, dove ottenne la laurea in medicina e filosofia, si trasferì a Roma, dove accrebbe le sue conoscenze chirurgiche lavorando presso l’ospedale di S. Maria della Consolazione. Proprio in questo luogo prese coscienza, come egli stesso ricorda nella prefazione della sua più celebre opera, il De rara medicatione vulnerum, di un nuovo metodo per la cura delle ferite.


Nella sostanza la differenza tra il metodo tradizionale e quello che Magati intravede a Roma e poi studia e personalizza, giustificandone i risultati attraverso un riesame puntiglioso delle fonti classiche della medicina, stava nella diversa frequenza delle medicazioni. 

Aveva infatti acutamente notato come le ferite scoperte e medicate spesso ed in profondità come voleva la tradizione guarivano molto più lentamente rispetto a quelle che venivano scoperte, a seconda dei casi, a distanza almeno di due o tre giorni.


Per Magati, figlio spirituale di Ippocrate e di Francesco, il merito principale della guarigione è da ricondurre, oltre che all’operato del medico, alla intrinseca e divina perfezione dei meccanismi naturali. Il segreto per un’efficace cura delle ferite dunque non consiste in altro che nel coadiuvare meglio che si può la natura.

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