Le visite dei pontefici
Riflessioni sul significato della finitudine
Finitudine è il titolo del nuovo libro di Telmo Pievani: è una parola che appartiene a una costellazione di significati molto frequentata dal pensiero filosofico contemporaneo, assieme a «caducità» e «mortalità». E anche se le orribili contingenze in cui da qualche mese è piombata l'umanità rendono più intense molte riflessioni (non fosse altro perché siamo tutti costretti a concentrarci sulle stesse cose), non ci voleva certo la pandemia per farci percepire quanto l'ombra dell'effimero si stenda su ogni nostro desiderio e ogni nostra sicurezza, finendo per insediarsi fin dentro la coscienza di sé e del mondo, e rischiando di paralizzarla.
All'inizio di quest' anno Mauro Bonazzi, studioso del mondo antico, ha pubblicato un libro, intitolato Creature di un sol giorno (Einaudi), che è un'analisi molto illuminante del sentimento dell'impermanenza nei Greci, nel lungo arco di tempo che va dai poemi omerici alla scuola di Epicuro. Protagonista del libro di Pievani è invece l'uomo moderno, che in comune con i Greci ha lo scarso o nullo valore assegnato alla fede nell'aldilà; ad allontanarci irrimediabilmente da quei nostri saggissimi antenati, d'altra parte, c'è la coscienza vertiginosa dell'incommensurabilità del mondo alla misura umana, dal momento che le scoperte scientifiche non fanno che ribadire il carattere non solo effimero della vita in quanto tale, ma anche del tutto fortuito, più vicino all'eccezione che alla regola. La scienza, intesa come metodo sperimentale ed esercizio incondizionato della razionalità, non fa che sradicarci dal centro, sempre ammesso che la nozione stessa di «centro» abbia un qualche significato nell'universo svelato dalle formule della relatività o della teoria dei quanti. E se il Giacomo Leopardi del Canto notturno e della Ginestra può sembrarci ancora un eroe del pensiero e uno sgominatore di illusioni, oggi i contenuti del materialismo del grande poeta sono diventati senso comune, e nemmeno chi nutre una fede religiosa, se non è un fanatico, può impedirsi di farci i conti, di ammettere che l'orizzonte è del tutto ostile a una ricerca di senso. Eppure, non possiamo soccombere nemmeno alla verità.
Ed è proprio questa la premessa del «romanzo filosofico» di Pievani, che rinnova per questo aspetto una tradizione narrativa che risale soprattutto all'Illuminismo francese e che ha davvero scarsissimi precedenti nella tradizione italiana (ma alcuni libri di Italo Calvino e Primo Levi potrebbero essere compresi in questa chiave). L'invenzione è ingegnosa. Siamo nell'inverno del 1960, e un grande scienziato, Jacques Monod, premio Nobel per la Medicina nel 1965 e direttore dell'Istituto Pasteur, fa periodicamente visita nell'ospedale di Fontainebleau al suo amico e compagno nella Resistenza Albert Camus, che Pievani immagina scampato (almeno per qualche settimana) all'incidente d'auto del 4 gennaio che in realtà lo uccise sul colpo a quarantasei anni. Quelle di Monod non sono solo visite di cortesia: i due amici sono impegnati a ultimare un'opera a quattro mani, di cui lo scienziato legge le bozze allo scrittore. Tutti i capitoli di questo libro inesistente ma verosimile portano in epigrafe una citazione del De rerum natura di Lucrezio, che è come il nume tutelare dell'impresa e il suo simbolo: il poeta latino, seguace e divulgatore del materialismo epicureo, vive in un periodo storico precedente al divorzio tra scienza e poesia, e realizza nella sua stessa persona la collaborazione tra Monod e Camus. Nel libro si alternano, stampati in un corpo tipografico diverso, le discussioni tra i due amici che, a dispetto dello stato avanzato del lavoro, non sono ancora convinti di questo o quel punto.
E l'incertezza è ben giustificata, perché la loro ambizione è anche superiore a quella di Lucrezio: non si tratta solo di constatare con coraggio la solitudine e la transitorietà della vita stritolata dalla consapevolezza della finitudine, ma di inventare dei rimedi, aprire delle prospettive di dignità e libertà proprio lì dove la ragione ammette l'inesistenza di facili vie di fuga. È una posizione molto difficile quella che Pievani (per mezzo dei suoi prestigiosi e quasi ingombranti personaggi) cerca di mantenere: da un lato c'è la necessaria distruzione di ogni mitologia consolatoria, dal momento che non solo la fragilissima esistenza individuale ha il destino segnato per decreto irrevocabile, ma anche il nostro mondo, così come lo conosciamo, porta impressa nei suoi fenomeni e nelle sue leggi una inesorabile data di scadenza. E poco importa che il sole ci metterà ancora un miliardo di anni per conciare anche il nostro pianeta nelle pessime condizioni in cui già sono i nostri vicini: basta l'affermarsi dell'idea della fine, non importa quanto remota, a insidiare ogni presente prosciugandolo di senso. D'altra parte, se non esistono trucchi tecnologici capaci di separare la vita dalla morte, né per il singolo né per le specie dei viventi, ogni consapevolezza di carattere «lucreziano» o «leopardiano» è preziosa nel momento in cui diventa la sorgente di un'etica, e qui il discorso di Pievani si fa interessante proprio perché, dopo aver toccato il fondo del pessimismo, sembra rimettere in mano all'uomo i fili del suo destino.
Da questo punto di vista, ciò che definiamo «nichilismo» potrebbe, molto più delle fedi basate sulla trascendenza, fornire una necessaria premessa a un nuovo patto tra le forme di vita e i loro ambienti. Ho il sospetto che il romanzo di Pievani, così godibile nelle sue articolazioni, contenga un'ironia: quello che si dicono Monod e Camus nei primi giorni del 1960 vale ancora oggi, al netto di tutte le supposte rivoluzioni attraversate negli ultimi sessant' anni. Di fronte ai problemi evocati in questo libro, poco contano le connessioni e gli algoritmi, i bosoni e le sonde spaziali. Certo la scienza e la tecnologia galoppano, e per certi versi gli uomini del 1960 ci sembrano remoti come gli Etruschi. Ma le esigenze più profonde del pensiero mutano più lentamente, sempre ammesso che mutino. E fa bene Pievani a ricordarci che non è il cumulo delle conoscenze a portarci veramente avanti, e che non c'è nessuna facile scorciatoia per aiutarci a prendere davvero per le corna il toro della nostra finitudine. (Corriere della Sera)
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