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Don Gino Rigoldi, incredibili ottant'anni

Redazione
Pubblicato il 04-11-2019

Milano ha reso omaggio a uno dei suoi simboli

La sintesi più felice la trova Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti: «Don Gino è un piccolo uomo, spazioso come una chiesa». Non per niente fa successo giocando con parole e musica. E, la sera del 30 ottobre alla festa alla Triennale di Milano per gli 80 anni di don Gino Rigoldi è arrivato, da molto lontano, con un regalo di quelli che capitano a pochi, una canzone ancora senza titolo: «Una volta don Gino mi disse “Dio esiste, ma, rilassati, non sei tu».

Ma si capisce subito che il momento che più di tutto emoziona don Gino Rigoldi è alla fine, quando a fargli gli auguri arriva una selezione – non tutti perché non basterebbe la Triennale – dei suoi ragazzi. Quelli che ha tirato fuori dai guai e che sono letteralmente la sua famiglia, ne ha anche adottati alcuni dando loro il suo nome, di quelli che nessuno si metterebbe in casa, usciti dal “Beccaria”, il carcere minorile di Milano. Sono loro la misura della sua felicità che, ripete, è fatta di relazioni: sinonimo, per lui, del comandamento dell’amore.
«Perché – dice – non puoi predicare agli altri se non ti muovi prima tu e perché non è semplice dire a uno Dio esiste, Dio ti vuole bene, se quando esce non ha un tetto sulla testa e l’alternativa di un lavoro onesto». Anche perché dove l’alternativa onesta manca, il rischio di finire di nuovo dietro le sbarre aumenta e con esso il rischio della società e allora quando serve don Gino parte alla carica e mobilità mezza città.

La grande Milano dal sindaco in giù che passa a fargli gli auguri, e ad augurarsi che continui a lungo la sua missione, ricorda gli incontri avuti lungo la strada e fa di lui un ritratto collettivo, fedele, di prete pragmatico: un tenace che non si ferma davanti alle difficoltà un po’ insofferente alla burocrazia, ma capace di “rallentare” per rispettare le regole. Attraverso le regole passa infatti anche la scommessa di recupero dei già segnati dall’esperienza carceraria prima della maggiore età, il più impopolare dei mestieri, Don Gino lo sa e ammette di averla presa fin da subito come una sfida, intrigante perché difficile. Giusto pochi giorni fa a Milano, a una proiezione del documentario L’estate di don Gino, girato in Sardegna durante una vacanza con alcuni ragazzi, in cui si capiscono tante cose del metodo, diceva: «lasciando al giudice la responsabilità di condannare e a Dio il giudizio finale, ai miei ragazzi parlo spesso delle vittime, perché non dobbiamo dimenticarle, perché hanno subito il male ingiusto e perché il recupero di chi lo ha commesso passa per la presa di coscienza del dolore causato».

Lo chiamano prete di strada, Don Gino sa di essere stato sui generis già da seminarista, ricorda spesso il rettore che gli disse: «Mi sa che tu non sei tanto adatto a fare il prete, sei troppo ribelle, sei ancora in Seminario e critichi il papa, una volta prete chissà che combineresti». Il Papa era Paolo VI, la critica sull’Humanae vitae: al giovane Gino, aspirante don, nato in una casa di ringhiera, quella indicata là dentro pareva un’asticella troppo alta per proporla ad anime e corpi di periferia.
Lo crede ancora, ma a 80 anni, dopo che un altro rettore, di collegio, scongiurando la cacciata dal Seminario, aveva capito la sua vocazione a riportare ragazzi sulla retta via, e dopo tante scarpe consumate nelle periferie milanesi alla ricerca di pecorelle smarrite di cui Comunità nuova e la sintesi, sa che nessuno osa più rimproverargli la franchezza, soprattutto adesso che un Papa venuto dalla fine del mondo sta mettendo le periferie al centro.

C’era anche don Mazzi alla festa, un altro “pretaccio” che fa propria la definizione in cui li riunì Candido Cannavò: ha chiamato a raccolta i suoi simili, don Gino in testa: «Se non alzano la voce i cardinali per difendere il Papa, alziamola noi pretacci». Loro che sono nati ai margini e che, salvati da una chiamata dall’alto, hanno scelto di restarci per aiutare, con le mani sporche e le maniche rimboccate. Sarà anche uno sporco lavoro, ma mantiene vivi. E giovani.

Elisa Chiari - Famiglia Cristiana

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