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Così ho salvato dai jihadisti i manoscritti di Timbuctù

Pietro Del Re - Repubblica EPA/EVAN SCHNEIDER/UN PHOTO
Pubblicato il 31-08-2020

Ventiquattromila volumi salvati da da Mohammed Al Kadi Maiga

Miracolosamente sfuggiti alla furia iconoclasta dei gruppi jihadisti che nel 2012 conquistarono Timbuctù, ventiquattromila preziosi manoscritti sono oggi custoditi in una palazzina di due piani di un quartiere periferico e malconcio della capitale Bamako. Ma a proteggere questi codici miniati dal valore inestimabile, alcuni dei quali risalenti all’XI secolo, non ci sono guardiani. «Non possiamo permetterceli perciò, per non attirare ladri o malintenzionati, abbiamo preferito non pubblicizzare il nostro centro evitando di apporre insegne sull’edificio », spiega il direttore, Mohammed Diagayeté, lamentandosi del fatto che nessun ente, fondazione o governo del pianeta finanzi il suo "Institut des Hautes études et de recherches islamiques Ahmed Baba". Il quale sopravvive soltanto grazie ai sussidi statali di un Paese povero come il Mali, funestato da una gravissima crisi economica e da una decina di giorni governato da una giunta di colonnelli golpisti.

A mettere al sicuro gli antichi libri è stato Mohammed Al Kadi Maiga, sorta di "monument man" maliano, da allora diventato il bibliotecario dell’istituto. Al Kadi Maiga racconta che se l’avessero scovato mentre infilava i manoscritti in grossi bauli di ferro per caricarli sui pick-up per fuggire verso Bamako, gli islamisti gli avrebbero quantomeno mozzato le mani.

«Dei trentottomila volumi che erano conservati nell’istituto di Timbuctù, i jihadisti ne hanno distrutti più di quattromiladuecento. O meglio, hanno bruciato le copertine di migliaia di manoscritti perché dopo essersi accorti del loro valore hanno cominciato a smerciare di contrabbando pagina per pagina», spiega il bibliotecario. E’ verosimile che tra i tagliagole di Al Qaeda che invasero la città solo in pochi fossero in grado di capire che cosa contenevano quei libri. «E per nostra fortuna hanno scoperto solo con grande ritardo la sala del centro di Timbuctù dov’era conservata buona parte dei manoscritti», aggiunge il bibliotecario. «Nel frattempo, l’avevo quasi interamente svuotata, contando anche sull’aiuto di molte famiglie che mi tenevano nascosti i libri nelle case, prima che potessi trasportarli nella capitale». L’autodafé più devastante fu perpetrato a fine gennaio 2013, subito prima che la "città dei 333 santi", com’era una volta chiamata Timbuctù, fosse riconquistata dall’esercito lealista grazie all’intervento dei caccia dell’aviazione francese. «Molti manoscritti furono bruciati per i loro contenuti poiché trattavano anche di grammatica, botanica, chimica, musica, letteratura, storia e astronomia. Quanto alle opere teologiche, esse predicavano un Islam moderato, aperto e tollerante, che era quello di un luogo dove per secoli si sviluppò una ricchissima cultura afro-islamica e dove prosperò una società fondata sul diritto e sulla giustizia, lontana anni luce dall’oscurantismo jihadista», dice ancora Al Kadi Maiga, che nei tragici mesi in cui gli islamisti distruggevano con cariche di esplosivo anche gli splendidi mausolei riconosciuti come patrimonio mondiale dell’Unesco, riuscì spostare a Bamako due terzi dell’intera collezione.

I manoscritti sono oggi conservati in scatole di cartone, fabbricate su misura all’Institut. Per mancanza di spazio, due soli manoscritti sono esposti sotto bacheca: il primo è un Corano del XVIII secolo con meravigliose decorazioni che sembrano fatte da un pittore cubista; l’altro, vergato con una grafia elegante e minuta, è un saggio di diritto islamico, firmato e datato 1204. «Oltre alla catalogazione dei manoscritti, ci occupiamo anche della loro digitalizzazione, che facemmo in fretta e furia nel 2013, spaventati dall’eventualità ch questo patrimonio potesse andare perduto. Ora, invece, possiamo operare con tutta la calma e l’attenzione dovuta», dice il direttore Diagayeté, mostrandoci le due stanze dove, al momento, è stato digitalizzato circa l’8 per cento dei codici.

A Timbuctù, nel secolo d’oro dell’impero Songhai, che si concluse nel 1591, i suoi abitanti erano quasi tutti alfabetizzati e si contavano scienziati che già scrivevano sull’emancipazione degli schiavi, sui diritti delle donne o sulle gioie del sesso in seno alla coppia. I trattati di filologia o di geomanzia, e quelli sui danni provocati dal tabacco o sulla chirurgia ottica, dimostrano una straordinaria passione per l’erudizione e per la sua trasmissione che sacralizzava le virtù della conoscenza. «Alcuni manoscritti sono la testimonianza di antiche lingue africane trascritte in arabo che si pensava fossero solo di tradizione orale», dice Maria Luisa Russo, ricercatrice italiana dell’Università di Amburgo e dell’Hill Museum and Manuscipt Library. «Questi meravigliosi libri sono stati scritti per trasmettere un sapere e per lottare contro l’ignoranza. Vanno difesi affinché la storia non si ripeta».

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