Le visite dei pontefici
Lo sconfiggeremo se saremo più vicini, pur in una distanza a prova di contagio
Queste settimane di dura prova per il nostro Paese, a causa della diffusione del nuovo coronavirus, hanno mostrato la tenuta delle istituzioni democratiche, l’abnegazione del mondo sanitario, della protezione civile e delle forze dell’ordine insieme al senso di responsabilità di tanti cittadini. Eppure, l’epidemia ci ha colti in un tempo liquido, in cui si sono dissolte reti sociali e relazionali sperimentate. Ognuno è più solo nel mare della vita. Di qui l’incertezza, la confusione, e a volte la paura di questi giorni. Di qui le città che si svuotano di vita.
Ognuno è un po’ più solo nella crisi e reagisce in modi a volte contraddittori. Le risposte positive però non mancano. L’emergenza ha fatto emergere la centralità delle reti di prossimità e di solidarietà oggi ancora più essenziali per contrastare la solitudine e l’isolamento di tanti. La vasta realtà di persone che appartengono a queste reti, espressione in gran parte del mondo cattolico, sono, generosamente, all’opera perché nessuna delle persone più vulnerabili e fragili rimanga sola in questa emergenza. Insieme a tanti preti al servizio e in ascolto delle persone.
Nel tempo della solitudine è chiesto dalle autorità competenti – per un motivo quanto mai necessario e per ragioni assolutamente condivisibili – di creare una certa distanza, alla quale però si può rispondere facendo crescere la vicinanza relazionale. Non solo l’interesse e la partecipazione all’esistenza altrui, bensì qualcosa che si faccia premura, calore, accompagnamento. Non sconfiggeremo il covid-19 se saremo più soli, ma se saremo più vicini, pur in una distanza a prova di contagio. Non usciremo da questa prova astraendoci dal mondo esterno (e isolando gli altri), ma creando ponti capaci di non far andare alla deriva nessuno, a cominciare dai più deboli.
Il decreto del Governo ha insistito sul fatto che «le persone anziane o affette da patologie, ovvero con stati di immunodepressione congenita o acquisita, [debbano] evitare di uscire dalla propria abitazione fuori dai casi di stretta necessità». Tanti anziani, persone con disabilità o chi vive per strada è più solo: ricostruiamo un tessuto sociale, anche se da lontano. Non è difficile. Si tratta di ricordarci di chi vive da solo, di fare visita dal pianerottolo, di avviare una conversazione telefonica, di offrirsi di comprare cibo e medicine. Con l’arcivescovo di Milano diremmo: «per far crescere motivi di serenità».
Il nemico da sconfiggere è il coronavirus, ma dobbiamo impedire che vinca un altro nemico, ancora più subdolo, l’isolamento.[...] La tecnologia può essere al servizio di questa emergenza per mantenere i legami sociali quando le possibilità di incontrarsi sono limitate. Una situazione inedita chiede risposte e soluzioni nuove e creative.
Tra le persone a rischio ci sono i senza dimora.[...] E' necessario guardare con più attenzione a chi vive per strada, per il quale un saluto, una presenza, un aiuto alimentare o di altro genere sono qualcosa di vitale.
La forza dell’epidemia ci ricorda la nostra debolezza. Ma ci rivela anche la nostra forza potenziale – di relazione, cura, ricucitura –, la stessa di cui sta dando prova da settimane il personale medico e paramedico. Ciascuno può essere una presenza amica, capace di prendersi cura di chi non ha altri su cui contare, di rafforzare quei legami di solidarietà sul territorio che rappresentano un vero e proprio sostegno vitale. Scriveva ieri il fisico Guido Tonelli sul "Corriere" che è necessario mettere subito in circolo un «vaccino sociale» in attesa che sia «disponibile il vaccino reale». È il grande compito delle reti di solidarietà.
Marco Impagliazzo
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