Le visite dei pontefici
Intervista al sociologo Domenico De Masi: ecco cosa abbiamo imparato
Professor De Masi, l’epidemia del coronavirus sta rivoluzionando la nostra quotidianità e il nostro senso di sicurezza. Lei l’ha definito un grande esperimento sociologioco. Cosa stiamo imparando?
Ci troviamo tutti insieme di fronte allo stesso problema imprevisto, inedito. Ci ha colti impreparati. E’ una specie di grande corso di formazione collettivo. Stiamo imparando tre cose: la prima è che le competenze sono indispensabili. Fino a poco tempo fa c’era che diceva che “uno vale uno” e si mettevano in dubbio assunti scientifici. La scienza è l’unica cosa a cui possiamo aggrapparci e che ci può orientare. Sconda cosa: province, comuni e regioni sono funzionali, ma è indispensabile soprattutto il coordinamento forte e unico dello Stato centrale. Terzo: l'importanza del telelavoro. Tanti lavori si possono svolgere tranquillamente da casa, dalla spiaggia, ovunque. Senza perdere tempo, denaro, senza accumulare stress nel tragitto verso l'ufficio.
Quella del telelavoro è una lezione che sapremo raccogliere quando sarà rientrata l'emergenza?
Putroppo temo di no. Pensi che il mio primo corso sul telelavoro fu nel 1969, il primo libro sullo stesso argomento nel 1993. Ma ci è voluta un’emergenza per renderlo pensabile. Il problema è che spesso chi occupa ruoli apicali vuole avere il controllo sui propri dipendenti. Vuole controllarli attimo per attimo e incombere nello svolgimento delle singole mansioni.
Anche balisilche e parrocchie hanno dovuto chiudere le loro porte ai fedeli. Qual è il ruolo della Chiesa in questo periodo di fragilità collettiva e come può essere presente a distanza di sicurezza?
Si può anche"telepregare"! Ognuno è solo con Dio in qualsiasi momento, alla preghiera corale si può supplire con momenti di raccogliemento individuale e il fedele può agire in nome di Dio con buone azioni rivolte ai più fragili e agli anziani: in questo periodo ce n’è particolare bisogno. Non ripetiamo l’errore del Cardinale Borromeo nei Promessi sposi, che per scongiurare la peste organizzò una processione e si rivelò fatale per il contagio.
Ci sentiamo tutti indifesi. E’ giusto avere paura?
Questa non è paura, è angoscia: questo virus è qualcosa di inatteso, impalpabile, ignoto. Per questo la definirei angoscia. Ed è giusto averne. E’ un meccanismo di difesa. Come quando abbiamo un dolore fisico e andiamo dal medico, l’angoscia ci spinge ad agire per affrontare la situazione.
Come farlo senza farsi prendere dal panico?
Siamo molto più equilibrati di quanto possiamo pensare. A New York hanno svuotato i centri commerciali non appena è uscita la notizia del primo caso. Sono ansie motivate anche dall’insicurezza del cittadino americano: lì un tampone costa 1200 euro. Il 20% dei cittadini non se lo può permettere. In Italia ce la stiamo cavando bene perché abbiamo la garanzia della sanità pubblica.
Si ammala l’operaio, il manager, fino alle più alte cariche dello Stato. E’ un virus che non conosce distinzione di classe…
Il virus colpisce tutti è vero. Il ricco è in quarantena come il povero, ma magari lo fa nella sua villetta con giardino, facendosi portare il cibo a casa senza alcuna difficoltà economica. La distinzione di classe persiste, sempre, in tutti gli ambiti della nostra vita.
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