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Andiamo a scuola dagli alberi

Bruno Ruffilli, La Stampa Pixabay
Pubblicato il 02-09-2020

Mancuso: un'intelligenza alternativa che insegna l'arte della sopravvivenza

«Della natura in genere, e anche delle piante, non abbiamo un'idea positiva o negativa: la nostra valutazione si basa sull'utilità che ne possiamo trarre», dice Stefano Mancuso, professore all'Università di Firenze e accademico dei Georgofili. Dirige il Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale, una materia che ha praticamente inventato. Quando cade un albero e fa dei danni a cose oppure, come a Marina di Massa, uccide due ragazzine, ci si chiede increduli come sia possibile. «Non conosco questo caso, ma in Italia ci sono forse 7 miliardi di alberi e ogni tanto concludono il ciclo vitale: sono attaccati da parassiti, hanno delle malattie e non è certo possibile controllarli tutti. Soprattutto non si possono prevedere fenomeni atmosferici violenti, che sono effetti del riscaldamento globale: raccogliamo ciò che abbiamo seminato, letteralmente. Le nostre città andrebbero ripensate: a parte i parchi, la presenza di piante è residuale, lungo i viali, in spazi che non si sa come riempire. Le radici non si possono sviluppare, non hanno ossigeno perché sono sepolte nell'asfalto e spesso le piante crescono instabili e sono destinate a vita breve». Così Mancuso, con l'architetto Stefano Boeri, ha ideato «Urban Jungle», un progetto pilota finanziato dalla Ue che trasformerà alcune zone di Prato in un bosco abitato. «Gli edifici - spiega - saranno ricoperti di verde, mentre oggi le città sono completamente impermeabili alla natura esterna». Ci sarà anche una «fabbrica dell'aria», una specie di serra inglobata in un grande mercato, che purificherà l'ambiente portando in uno spazio chiuso il respiro della foresta.

Per chi poi volesse sperimentarlo, ecco un suggerimento: «Le faggete del Monte Amiata sono incantevoli, soprattutto in autunno, quando le foglie cambiano colore. Non è solo una suggestione estetica: andare tra questi boschi significa muoversi in un superorganismo e intuire come funziona». Già: come funzionano le piante? Mancuso lo racconta in libri, ricerche e pure con un disco e uno spettacolo musicale (Botanica, con i Deproducers). «Le piante non hanno un cervello ma sono intelligenti. Tendiamo a immaginare che l'intelligenza nasca dal cervello, ma gli esseri viventi dotati di cervello, gli animali, sono solo lo 0,3% della vita sulla Terra. Dovremmo quindi dedurre che il restante 99,7% non è intelligente, ma fatto di macchine organiche che rispondono in maniera autonoma all'ambiente. Invece la vita è tutta intelligente: è impossibile immaginare un essere vivente che non sia in grado di risolvere problemi. L'intelligenza è la capacità di risolvere problemi».

Il più importante è la sopravvivenza: in questo le piante sono molto più intelligenti degli uomini, anche perché non affrontano mai i problemi da sole. «Nel mondo vegetale la comunità ha un valore maggiore rispetto agli uomini e questo dipende dal fatto che le piante sono sessili, ossia radicate. Non si muovono, almeno apparentemente (in realtà si muovono, ma rispetto agli animali non possono spostarsi dal luogo in cui sono). È un po' quello che ci è successo col lockdown negli ultimi mesi: abbiamo fatto esperienza della vita delle piante. E, quando siamo bloccati, da una parte facciamo attenzione all'ambiente che ci circonda, ne vediamo i difetti, cerchiamo di migliorarlo, perché siamo costretti a rimanerci, dall'altra sperimentiamo la necessità di avere una comunità di simili che ci sostiene».
Da qui i canti sui balconi: «L'idea di comunità di prossimità che si era persa si è ritrovata, ma abbiamo anche usato telefono, computer, Skype, Messenger e altre piattaforme. Essere sessili implica un flusso costante di comunicazione con gli altri membri della specie ed è ciò che rende una comunità più forte, l'aiutarsi a vicenda. Le piante non sono buone, lo fanno perché conviene: avere una comunità funzionante intorno a sé è così importante che se un membro è a rischio gli altri si sforzano per mantenerlo in vita».

La lezione delle piante è quindi anche politica: «Esistono mille ragioni per mantenere sana una comunità, anche utilizzando una parte delle proprie risorse, mentre noi immaginiamo la lotta per la vita come un compito da gladiatori, in cui vince il più forte. Una visione post-darwiniana del tutto sbagliata».
La comunità è la vera spinta dell'evoluzione; a far crescere non è la competizione, ma la cooperazione, dice Mancuso. Il contrario della narrativa così tipicamente occidentale dell'eroe solitario o del capo d'azienda: «Le organizzazioni degli uomini sono piramidali, con un capo e degli organi che si occupano di compiti particolari perché noi siamo fatti così, e replichiamo la struttura ovunque, dalle università ai giornali. Il vantaggio è la velocità e infatti è l'organizzazione tipica di noi animali, che ci muoviamo. Ma con gli uomini la trasmissione degli ordini viene rallentata dalla burocrazia che nasce in queste organizzazioni. Che sono fragili: se non funziona un organo fondamentale tutto crolla; con le piante invece si può eliminare l'80% della rete, ma questa continua a vivere».

Viene da pensare a Internet: «Una struttura identica a quella delle radici delle piante in una foresta o appunto nelle faggete del Monte Amiata. Un bosco è un unico superorganismo, dove le piante sono connesse e si trasmettono informazioni su acqua, nutrimenti, pericoli e altro». Quindi il concetto di individuo, in un certo senso, coincide con quello di comunità: d'altra parte, se si fa a pezzi un animale - di quelli che definiamo evoluti -, di solito muore, mentre con i vegetali è il contrario: dividendoli si moltiplicano.
Darwin ha dedicato alle piante diversi libri, tra cui The power of movement in plants, dove si dice convinto che la punta della radice di una pianta agisca come il cervello di un animale inferiore: prende i dati dall'ambiente, li elabora e decide in quale direzione crescere. «Ma sottolinea pure che in quasi tutti gli esseri viventi il polo cognitivo e il polo riproduttivo sono agli apici opposti del corpo. E se i fiori sono l'apparato riproduttivo delle piante, e se anche qui il cervello è dall'altra parte, deve per forza essere sottoterra, nelle radici».

Nelle sue esplorazioni intorno al mondo lo scienziato inglese visitò anche un altro dei luoghi del cuore di Mancuso: l'orto botanico di Pamplemousse sull'isola di Mauritius. «È il più antico dell'emisfero australe, dove venivano raccolte le piante che si trovavano nelle varie esplorazioni. Erano studiate e allevate e se ritenute in qualche maniera utili venivano portate in Europa. Dal Settecento è stato un luogo fondamentale per lo studio delle piante e lo è ancora oggi. È l'ultimo segno di rispetto e amore per la natura, nello sfacelo di quest'isola che è diventata un unico grande resort».

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