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A colloquio con Andrea Monda, direttore dell’Osservatore Romano

Antonio Tarallo Radiopiu
Pubblicato il 27-01-2020

L’informazione e la Chiesa, la Carta di Assisi, il Manifesto sulla crisi climatica del 24 gennaio scorso

Il tavolo è ingombro di “sudate carte”, di chi ama approfondire i temi, viverli nel profondo, e non “rimanere in superficie”. Libri, quotidiani, e annotazioni sparse fanno da cornice allo studio del direttore de “L’Osservatore Romano”, Andrea Monda. Il “da fare” nei corridoi del giornale è tanto, e questo lo si percepisce ancor di più, oltrepassando la porta del suo studio. Il direttore dell’“Osservatore romano” ha accettato gentilmente di rispondere ad alcune domande per “San Francesco, patrono d’Italia”. Ecco il testo dell’intervista.

Direttore, viviamo un mondo in cui si comunica tanto, ma - forse - si “con-divide” realmente poco.  Quali possibili vie, strumenti, per sviluppare maggiormente una visione di comunicazione intesa come com-unione?

Viviamo indubbiamente l’epoca delle comunicazioni solo che bisognerebbe intendersi sul cosa voglia dire comunicare. Cos’è la comunicazione? Per il cristiano la comunicazione è l’anticamera della comunione. Il fine della comunicazione è la comunione: essere uno, salvaguardando però la peculiarità di ciascuno. Questo passa attraverso la condivisione. Questa - poi - è in fondo la “parola magica” sui social: su facebook, si “condivide”. Il punto è se tutto questo è vero, se tutto questo ha impatto reale sulla nostra vita, sulle nostre relazioni. E’ molto bella l’evoluzione della rete di questi ultimi decenni, passando da uno strumento soltanto di ricerca d’informazioni a luogo di condivisione. Sono nati appunto i social con questa ambizione di creare addirittura “amicizie”. Direi che la tendenza è quella giusta, è un’ambizione sacrosanta, ma vediamo che nella realtà non è sempre così. Tanti contatti, pochi amici veri. Per il cristiano la sfida è quella di vivere relazioni vere, autentiche, profonde e che non si fermino alla consumazione della quotidianità, spesso superficiale.

Le informazioni corrono sempre più veloci, data l’era digitale in cui siamo sommersi. Siamo bombardati, ogni giorno, di notizie che si susseguono - oserei dire - come onde su onde nell’oceano sconfinato dell’informazione. Quanto, secondo Lei, queste acque così “agitate” possono contribuire - magari involontariamente - allo stato di “precarietà” che stiamo vivendo?

Oggi, corriamo il rischio di fare il surf sulla cresta dell’onda e rimanere in superficie. La comunicazione - troppe volte - viaggia sul binario dell’emotività, dell’emozione. Questo è terribile perchè le emozioni sono violente, sono subitanee, sono ondivaghe - per rimanere nella metafora del mare - per cui se si vive soltanto di sentimento, si rischia poi di vivere di risentimento. E vediamo quanto rancore, quanta rabbia e - a volte - quanto odio si scatena poi, soprattutto in rete. Che il mare sia agitato è un fatto facilmente riscontrabile, oggettivo. E in sè, non è un male, perchè la stessa realtà umana, la vita umana è sempre inquieta, agitata. Di questo non sono turbato. Piuttosto, mi preoccupa l’approccio che noi abbiamo alle notizie, al mondo, e alla rete se non ci mettiamo in gioco personalmente fino in fondo, ma rimaniamo - a volte - a fare il surf sulla cresta dell’onda.

Dicevamo velocità di notizie. Dati, volti, storie, corrono appaiono nella “memoria del lettore” per un istante, per poi sparire. E, in tutto questo processo così rapido c’è tempo per una vera e propria riflessione da parte del lettore?

Questo è il problema della comunicazione quando invece di creare le condizioni per la nascita di una vera comunione, insegue la logica dell’informazione urlata, della creazione - a tavolino - di eventi. Non interessano più i fatti, ma si creano eventi. L’evento ha una sua natura: quella di fagocitare sé stesso. Si consuma in poco tempo e viene superato dall’evento successivo. Questo ci condanna alla globalizzazione della superficialità. Non c’è soltanto la globalizzazione dell’indifferenza - termine coniato da Papa Francesco - ma c’è la globalizzazione della superficialità - come dice Padre Nicholas ex padre generale dei gesuiti - che tocca soprattutto la sfera della comunicazione, dell’informazione. Il rischio che corriamo è che quest’ultima poi possa sfociare appunto nella globalizzazione dell’indifferenza.

“La carta di Assisi, le parole non sono pietre”, questo l’appello lanciato dai giornalisti che nel 2017 si sono incontrati ad Assisi per una due giorni d’incontri sul tema della responsabilità dell’informazione. In questo decalogo, al quinto punto, leggiamo: “Se male utilizzate, le parole possono ferire e uccidere. Ridiamo primato alla coscienza: cancelliamo la violenza dai nostri siti e blog, denunciamo gli squadristi da tastiera e impegniamoci a sanare i conflitti. Le parole sono pietre, usiamole per costruire ponti”. Due parole su questo…

La stesura della cosiddetta Carta di Assisi, da una parte è un segno positivo perchè segnala che c’è ancora una coscienza nel mondo del giornalismo ed esercita un giudizio critico sull’informazione. Dall’altra possiamo dire che c’è un aspetto negativo, se vogliamo: se oggi abbiamo bisogno di ricordarci le basi minime di un giornalismo umano, questo vuol dire che si è superato il segno. Si è andato oltre. Il merito della Carta è proprio questo: ricordarci dell’umanità del servizio dell’informazione.

La comunicazione e i pontefici, da Giovanni Paolo II a Papa Francesco. Personalità differenti, diversi linguaggi…

Direi pontefici diversi, con diversi timbri di voce, ma la musica è la stessa. Lo spartito è lo stesso, ed è quello del Vangelo che deve essere annunciato. L’essenza stessa della Chiesa è l’annuncio di questo Vangelo, di questo Messaggio. E i papi, da duemila anni, lo fanno. E lo fanno con una continuità rispetto alla fedeltà di quello “spartito” - il Vangelo - coniugata alla libertà di interpretazione. I papi sono grandissimi interpreti, ognuno con il suo stile particolare, con la propria personalità: Giovanni Paolo II che ha regnato così a lungo, tanto che si potrebbe distinguere, nei ventisette anni di pontificato, un periodo dall’altro; Benedetto XVI con il suo stile inconfondibile, di grande cultura, di grande intelletto e Francesco che spicca proprio per il suo aspetto comunicativo. Potremmo sintetizzare il tutto, così: Giovanni Paolo II era bello da vedere, Benedetto XVI era bello da ascoltare, Papa Francesco che avvicina le persone, che azzera le distanze.

Uno dei temi alla ribalta di oggi, è quello dell’ambiente, della crisi climatica. “Costruire un'economia e una società più a misura d'uomo in grado di affrontare con coraggio la crisi climatica, grazie ad una nuova alleanza tra istituzioni, mondo economico, politica, società e cultura”. Questo, l'obiettivo del Manifesto di Assisi - il documento "contro la crisi climatica", presentato lo scorso 24 gennaio, con grande eco della stampa e dell’opinione pubblica. Il manifesto si ispira all’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. Quanto, secondo Lei, la sfida della crisi climatica può essere - concretamente - l'occasione per mettere in movimento il nostro Paese in nome di un futuro comune e migliore? E’ una visione possibile?

La Laudato si’ è un testo fondamentale di questo pontificato e del cristiano di quest’epoca. Potrei paragonarla alla Rerum novarum di Leone XIII. Anche all’epoca, magari, meravigliò qualcuno il fatto che il pontefice si metteva a parlare di qualcosa di specifico, come - ad esempio - il salario, lo stipendio degli operai. Ma la Rerum novarum - sta di fatto - ha cambiato la società e ha inaugurato la stagione della dottrina sociale della Chiesa. Qui siamo di fronte a un fenomeno simile, della stessa portata storica. La Laudato si’ non è un manifesto verde, “alla moda” - visto che va di moda la sensibilità ecologica, ambientalista - bensì è un testo ricco, denso, profondo che dovrebbe diventare la Rerum novarum dei nostri tempi: spingere i cristiani a un impegno rinnovato nella società, nella politica, avendo come punti di riferimento questo sfondo teorico dell’enciclica, che - poi - riesce a calarsi profondamente nel concreto.

Antonio Tarallo

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