La regola e la vita dei frati Minori

di Elvio Lunghi

Quando Francesco fu cacciato di casa, perché fu Pietro di Bernardone a cacciare Francesco, di testa sua Francesco probabilmente non se ne sarebbe mai andato. Insomma, quando Francesco uscì di casa non lasciò Assisi, non diventò invisibile, continuò a fare quel che sapeva fare, continuò a cantare. Finchè ebbe un nido dove posare il capo, Francesco era chiamato il re delle feste perché sapeva cantare. Una volta fuori dal nido Francesco continuò a cantare, usando sia il francese dei cantastorie che la lingua del sì - come la chiamò Dante - il dolce stil novo che abbiamo studiato in gioventù nei manuali scolastici e che si apre con le Laudes creaturarum di san Francesco di Assisi. Se ne servirà per cantare l'amore umano verso il Dio creatore, creatore del sole e della luna, dell'aria, dell'acqua, del fuoco, di tutte le creature. Il Dio che sta dietro questa fantastica storia che è la vita. Francesco non esce di scena, non lascia Assisi, non diventa uno straniero e pellegrino per le strade del mondo. Sarà un vagabondo senza soldi in tasca, ma nel cuore gli è rimasto Dio. Sceglie la povertà da ricco che era. Anzi la sposa, con la disarmante semplicità di un giovane del Novecento che vede gente, fa cose, chiede ospitalità a un amico, riceve in dono un pane, o un abito. Evita le lusinghe di questa nuova forma di Fascismo che ci vorrebbe tutti ignavi consumatori, come scriverà un poeta del Novecento, Pier Paolo Pasolini. Anche Francesco gira, vede gente, si muove, conosce, fa cose, nulla di preciso, e lo fa nella più disarmante semplicità. Si è fatto un abito di sacco in forma di croce e passa tutto il suo tempo in strada a cantare con il cuore gonfio di amore davanti alle meraviglie del creato, che ha in questo caso le sembianze di una piccola città di provincia: cent'anni più tardi il solito Dante spiegherà in endecasillabi che chi di Francesco vuol parlare, "non dica Ascesi, che direbbe corto, ma Oriente se proprio dir vole". Francesco attira attenzione, pone domande, suscita interesse. E allora "scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro lo sposo, sì la sposa piace". E allora come si fa? Perché quando si è soli è facile vivere come gli uccelli dell'aria e i gigli nei campi, vedere gente, fare cose. Ma quando si comincia ad essere in tanti, come si fa? Perché la libertà, come canterà un cantautore del Novecento, Giorgio Gaber, "la libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione". La libertà ha bisogno di regole, come scriverà Francesco nel suo Testamento: "E dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. E io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor papa me la confermò". Nel settimo episodio della Leggenda Francescana, primo della terza campata, è raffigurato l'episodio della concessione della regola. È il primo nel quale Francesco figura insieme a un gruppo di compagni, in tutto undici frati, dodici con Francesco, il tredicesimo è Gesù Cristo. Tutti vestiti di un saio fatto di sacco in segno di penitenza, e con una corda stretta ai fianchi annodata in tre nodi, a significare i voti di povertà, castità, obbedienza. L'iscrizione sotto il quadro recita "Quando il papa approvò la regola e dette l’incarico di predicare la penitenza, e fece tonsurare i frati che accompagnavano il santo, perché potessero predicare la parola di Dio". Ci spiega perché tutti i frati, in testa Francesco, abbiano il capo tonsurato. Francesco è in ginocchio ai piedi del trono papale e riceve dalle mani del papa un cartiglio, sul quale è scritto "Quae talis est regula et vita minorum fratrum scicilet domini nostri Jesù Christi santum evangelium observare vivendo in obedientia sine proprio et in castitate". Il papa è Innocenzo III, che accordò a Francesco una prima semplice approvazione orale a una forma di vita ispirata al Vangelo, nonostante il divieto a concedere nuove forme di vita religiosa espresso l'anno 1215 nel corso del IV Concilio Lateranense. La frase è in realtà ripresa dall'incipit della Solet annuere di Onorio III, che risale al 1223. Tanto il papa con i cardinali di curia, tanto Francesco con i suoi compagni compaiono all'interno di un grandioso salone, apparentemente il Palazzo Lateranense a Roma, che ha le pareti rivestite da pesanti tendaggi e un soffitto piano appoggiato su poderosi archivolti, a riprova dello studio dell’architettura antica compiuto dal pittore, e una profonda sensibilità verso la raffigurazione di uno spazio abitabile di proporzioni monumentali. La strana forma della giornata che contiene la figura di Francesco, cioè la stesura d’intonaco poi dipinta con la tecnica dell’affresco, lascia supporre che nel progetto originario il santo dovesse ricevere la regola in posizione eretta, e che in corso d’opera fosse adottata la soluzione di piegare Francesco in ginocchio, forse per dare più importanza alla figura del papa, o meglio ancora per ribadire la minorità della scelta di Francesco: la mia debolezza è la mia forza, avrebbe detto con l'apostolo Paolo.