Il Corpus Domini

di Don Felice Accrocca

La solennità appena trascorsa del Corpus Domini, del Corpo, cioè, e del Sangue del Signore Gesù, ha suscitato in me riflessioni molteplici e contrastanti. Sembrano lontani ormai anni luce gli anni della mia fanciullezza, quando nel giorno della festa tutto il paese si adornava di drappi e di file di luci posti alle finestre e le “infiorate” ne abbellivano vie e vicoli, in una gara che coinvolgeva tutti, piccoli e grandi.
Quanta tristezza, ora, nel percorrere vie anche piene di gente, ma indifferenti a quel che sta accadendo, quasi fosse cosa che non li riguardi, come se quel Corpo portato in processione non sia morto anche per chi ostenta disinteresse, con un gesto che vuol mostrare sufficienza o non so cosa! Eppure quanto bisogno abbiamo ancora di Lui: di Lui, si, che con tanta umiltà continua a venire in mezzo a noi, direbbe Francesco, «sotto poca apparenza di pane». E più di una volta, nel camminare tra le vie della città dietro il Santissimo Sacramento, sono tornate alla mente le parole del Santo di Assisi.

Tra i molti testi nei quali egli riafferma la sua fede in questo grande mistero, la Lettera a tutto l’Ordine merita una particolare menzione. È lì che Francesco, parlando in particolar modo ai sacerdoti della sua famiglia religiosa, si mostra come un uomo riconciliato con la propria piccolezza, che diviene anzi punto di forza, e addita ai frati l’esempio di Cristo, il quale umiliò se stesso svuotandosi delle proprie prerogative. Chiave di lettura del testo risultano, a mio avviso, i vv. 11 e 29: «Il Signore Iddio si offre a voi come a figli»; «Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché tutti e per intero vi accolga Colui che tutto a voi si offre».
La kènosi, lo svuotamento di Gesù, fattosi obbediente fino alla morte di croce (Fil 2, 6-8), richiede – perché possa attivarsi la comunione di grazia – un’eguale disposizione da parte dell’uomo, chiamato a lottare con se stesso a favore di un’espropriazione che indubbiamente costa, ma che, sola, rende possibile la nostra dimora in Dio e la dimora di Dio in noi. Torna, in altri termini, il concetto di restituzione, ben attestato negli scritti di Francesco. Poiché Dio è datore di ogni bene, tutti i beni vanno restituiti a Lui: «Restituiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamo grazie a lui, dal quale procede ogni bene» (Rnb XVII, 17: FF 49). Tutti i beni sono suoi, anche – anzi, soprattutto – noi stessi, la nostra vita: «nulla, dunque, di voi trattenete per voi…».

L’eucaristia, il sacramento lasciato da Gesù nell’imminenza della morte, è il segno di questa consegna irrevocabile da parte sua; per questo è necessario prestarle «tutta la riverenza e tutto l’onore» (v. 12). «Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nelle mani del sacerdote, è presente Cristo, il Figlio del Dio vivo. O ammirabile altezza e stupenda degnazione! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, si umili a tal punto da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane! Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, ed aprite davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da lui esaltati. Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché tutti e per intero vi accolga Colui che tutto a voi si offre» (vv. 26-29).

Un percorso tutto in salita, dunque, come in salita era stato il percorso di Cristo. Egli ha salvato gli uomini a prezzo della propria vita; Lui, che era Dio, svuotò se stesso (Fil 2, 8) per riconciliare noi, peccatori, con il Padre: la nostra vita è stata pagata a prezzo della sua morte, la nostra liberazione con la sua irrevocabile consegna.

Chi siamo allora noi, che spesso pretendiamo cocciutamente di mettere avanti a tutto le nostre esigenze e i nostri interessi? Siamo poca cosa eppure ci mettiamo volentieri al centro del mondo, mentre Lui che era Dio non esitò a farsi «maledizione per noi» (Gal 3, 13) e a salire, per amor nostro, su una croce.