Da questa parte del mare

di Grado Giovanni Merlo

Vorrei oggi inaugurare una nuova serie di riflessioni da sottoporre a coloro che seguono questo “blog”. Il mio intendimento è di individuare in testi inusuali tracce di “francescanesimo”, intendendo con questo termine un insieme di valori che rinviano, in modo diretto o indiretto, in modo lato o stretto, all’esperienza di frate Francesco e alla tradizione che a lui si riferisce: valori che a loro volta si collegano, in modo più o meno consapevole o voluto, alla tradizione cristiana. Non intendo certo coinvolgere gli autori dei testi in una esterna, forzosa e impropria operazione di inclusione in un’appartenenza di cui soltanto essi sono responsabili.

Il primo testo che mi sembra opportuno portare all’attenzione dei lettori è costituito da un piccolo libro (edito da Giulio Einaudi editore) di Gianmaria Testa, noto soprattutto come cantautore, scomparso di recente all’età di 58 anni. Il titolo, Da questa parte del mare, riprende le parole che già erano state adoperate per intitolare una raccolta di sue canzoni del 2006. Al centro di quelle canzoni e del librettino sono le migrazioni umane, le «moltitudini in cammino» di ieri e di oggi, con un’accentuazione sull’oggi, connotato da moltitudini che sono mosse dalla disperazione: «la disperazione di chi non ha più niente da perdere, la più forte delle energie». Ma anche ieri la situazione non era molto diversa. Si pensi all’Italia, «che sta diventando un paese d’immigrazione dopo aver riempito di emigranti mezzo mondo». Sono cose note alla stragrande maggioranza delle persone; cose che generano le reazioni più diverse, ma sulle quali si determinano fratture di valori. Scrive Gianmaria Testa: «Ho l’impressione che nei confronti del fenomeno per noi recente delle migrazioni abbiamo avuto uno sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di tutti noi». Sembrano considerazioni abbastanza ovvie: non lo sono. Esse affondano in una sensibilità peculiare: «il Mediterraneo è diventato una tomba d’acqua, un posto dove nascondere l’umanità alla deriva. Mi è capitato di guardarlo, questo mare nostro, di perdermi nel suo orizzonte infinito (…). Ora non ci riesco più. Ogni volta che guardo l’acqua mi viene in mente una coperta chiusa, un lenzuolo bianco a coprire occhi e membra».