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Francesco e il papato

Francesco Giorgino
Pubblicato il 30-11--0001



Chiesa come organizzazione gerarchica e Chiesa come “sensus ecclesiae”. Occorre partire da questa distinzione, solo apparentemente sottile, per capire il rapporto che si instaura fra Francesco e i successori di Pietro all'epoca in cui il Poverello d'Assisi avvia e consolida la sua azione in difesa degli ultimi e a testimonianza del Vangelo. È necessario procedere lungo questo crinale anche per poter entrare a pieno nello spirito di quella fase della sua vita nella quale questo giovane umbro diventato poi santo arriva a costituire intorno a sé una “fraternitas” che poi trasformerà in vero e proprio Ordine mendicante, straordinario strumento di diffusione della parola di Dio.

Concepire la Chiesa semplicemente come gerarchia ecclesiale (circostanza naturale in quel periodo, viste le caratteristiche medievali del papato) è presupposto differente da quello connesso al vivere il significato della condivisione dei valori fondanti una comunità di credenti consolidatasi nel tempo, accettando e potenziando l'idea che l'insieme vale più del singolo. Una comunità che ha saputo allungare lo sguardo oltre l'orizzonte visibile ad occhio nudo.

Il senso della vita di Francesco, il suo essere strenuo difensore del modello incarnato da Cristo, la scelta della povertà e dell'umiltà, il suo guardare al Creatore e al Creato allo stesso tempo e allo stesso modo, la sua capacità di attrazione che non è proselitismo ma esercizio carismatico e forza dell'esempio, trovano il fondamento dall'esperienza forte della conversione. Ed è qui che va rintracciata la chiave di lettura del suo rapporto con la massima istituzione ecclesiastica che all'epoca si concretizzava nella figura di colui che si può considerare il Papa più teocratico della storia della Chiesa, Innocenzo III, e poi più avanti nel tempo, Onorio III.

Francesco trae la forza delle proprie idee e del proprio progetto di evangelizzazione dalla fiamma che arde all'interno del proprio cuore. Matura il convincimento di donare tutto se stesso agli altri, avvertendo il limite della propria precedente esistenza fatta di ricchezza, agio e di un certo successo. E questo motore nessuno può spegnerlo. Egli si fa piccolo con tutti e persegue con tenacia il programma della fraternità, trattando con i grandi dell'epoca, intervenendo sulle questioni più importanti del momento e confrontandosi con il Papa con determinazione sì, ma anche con grande rispetto ed obbedienza. Anche quando capiva che le sue idee, a partire dalla radicalità evangelica, non trovavano facile consenso nel pontefice.

Francesco vuole che i frati che intendono seguirlo vivano solo di ciò che ricevono in dono. Manifesta la sua contrarietà quando vede che essi scelgono sedi stabili, dimore fisse. La sua è la strada della virtù della carità, strada più faticosa e lunga di altre, ma capace di condurre molto lontano. Innocenzo III questo lo intuisce, al punto che gli concede verbalmente il permesso di predicare e di vivere con i propri discepoli (che inizialmente sono solo i suoi più cari amici) secondo uno stile nuovo per la Chiesa. Perplessità ce ne sono da parte del Papa, ma questo stato d'animo di Innocenzo III non si traduce in chiusura, al contrario genera progressivamente fiducia. Francesco lo avverte e ricambia fedeltà, rispetto, obbedienza, anche perché non ha e non intende avere velleità rivoluzionarie. Almeno non le ha nei confronti della gerarchia ecclesiastica.

La sua unica vera rivoluzione è, infatti, quella della fedeltà totale a Cristo, dell'amore pieno e incondizionato verso il prossimo. È quella della capacità di stabilire nell'esistenza terrena le priorità più autentiche per ciascuno. Francesco è un vero figlio della Chiesa, un figlio che all'epoca comprende prima e più di altri la necessità di un'autentica inversione di rotta. Contesta non tutta la Chiesa, ma quella ricca e potente. E non lo fa con proclami o condotte contrarie alla gerarchia ecclesiale, ma con la grandezza dell'esempio della sua esistenza rinnovata, fatta di gesti semplici. Propone uno stile di vita e una concezione del “sensus eccleasiae” (come, per esempio, quella sul rapporto fra Dio, il creato e le tutte le sue creature) che diventano un lievito straordinario per far crescere proprio all'interno della Chiesa un'attenzione nuova verso le ragioni dell'uomo, in tutte le sue fragilità ed opportunità.

Ha ragione Carlo Cardia quando dice che è un “contestatore obbediente che sta dentro quella Chiesa che pure egli vorrebbe migliore”. La rivoluzione di Francesco passa attraverso il rispetto pieno dell'istituzione la quale asseconda il valore aggiunto della sua testimonianza di fede e della sua teologia e, sia pur in modo graduale, le consente di svilupparsi. Un percorso lungo quello di Francesco d'Assisi, se si considera che il via libera da parte della Santa Sede alla sua “Regola” arriva dopo anni, nel 1223, per volontà di Onorio III, successore di Innocenzo III. Ma val la pena di ricordarsi che è proprio nei processi complessi, tuttavia, che si dispiega la forza di certe buone intuizioni. Ed è così che il francescanesimo, esperienza che pure aveva registrato al suo interno momenti di difficoltà connessi anche alla presenza di divieti reputati troppo rigidi (come lo studio considerato sinonimo di potenza e di forza) riesce a prendere il largo. E grazie a quest'uomo innamorato di Dio, diventa paradigma, proposta e risposta. Si immerge nei problemi del medioevo, proiettandosi nel futuro.

E non è un caso che Giotto abbia deciso di rappresentare in maniera emblematica, in un dipinto custodito nella basilica superiore di Assisi, il Poverello mentre appare in sogno a Innocenzo III nell'atto di sostenere con le proprie spalle la Basilica del Laterano. Se non ci fosse stato quel coraggio, la Chiesa oggi sarebbe un po' meno comunità e un po' meno testimonianza. Quello stesso coraggio dimostrato da Francesco quando si è spogliato dei suoi vestiti e dal vescovo di Assisi quando lo ha avvolto subito con il suo mantello. di Francesco Giorgino

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