Francesco, fammi volare
Mi svegliai che era appena l'alba ed ero in una cella del convento di Assisi, pronto per andare alla messa, ed erano quasi le 6.00 quando arrivai nella cappella dove un padre officiava. Mi accorsi che il sonno era più
denso del previsto e tutt'altro che finito, tant'è vero che appena cominciata la messa, caddi in un torpore
anomalo e diverso dal classico rintronamento mattutino. Così che ricominciai a sognare.
Questo nuovo sogno si ricollegava al precedente, mano a mano che proseguiva mi rendevo conto che era come il
secondo tempo del primo sogno, ed ebbi la sensazione netta, e questa volta più precisa, che il sogno era Francesco. Francesco
bambino, ragazzo e vecchio, tutti insieme. Diverso da come lo volevano tutti, madre, padre, amici. Diverso da come
lo volevano tutti ma non diverso da come lo voleva Dio.
Io incredulo mi avvicinavo e dicevo: “Ma sei proprio tu?” e lui, a mezzo sorriso, con l'aria di sfida che si ha nei confronti
degli increduli, mi disse, indicando il saio: “Tocca” e in quel momento, appena ebbi tra le dita il tessuto del Santo, sentii
l'odore del fieno tagliato, mi sembrò di essere in mezzo ad un campo di grano. Ritrassi la mano come da una fiamma o
comunque da una scottatura, e mi sembrò che l'aria si scaldasse e dall'aria uscisse come un suono di battere d'ali che puoi
sentire nelle piazze d'Italia o comunque nei paesi dove i colombi planano sui turisti. Fu proprio quel suono a rassicurarmi
che Francesco era davvero Francesco, che la piazza era una delle tante piazze che normalmente si visitano la domenica e
che io ero contento di essere lì.
Senza alcun timore chiesi: “Cosa vuoi da me?” e lui, senza l'aria di voler correggermi e forse anche un po' divertito,
rispose: “Cosa vuoi tu da me? Tu mi conosci ed io conosco te” e io, un po' ruffiano, un po' per compiacerlo e un poco per i suoi
piedi sporchi di terra e di fango che spuntavano dal saio, gli dissi, chiedendolo: “Camminiamo?”. E cominciammo a girare
sfiorando i muri della piccola chiesetta dove l'altro frate diceva messa e fu un parlare silenzioso se non addirittura muto,
se non per le risposte che Francesco dava all'altro padre mentre officiava come un qualsiasi chierichetto di una parrocchia
di campagna intorno agli anni ‘30, comunque tra le due guerre mondiali.
Era curioso come le parole mi uscissero dalla bocca completamente mute e statiche, sembravano una fi la di uova di
gallina di un ordinato pollaio del Nord. Ma il mio cuore era un vulcano, i pensieri uscivano come lava e avevo la sensazione
che fossero esattamente il contrario delle parole che li rivestivano. Francesco al mio fianco, mentre passava tra i banchi
della chiesetta, con la stoffa del saio, li lucidava, li puliva, li ordinava in fila, come una qualsiasi servetta friulana faceva
tutte le mattine nella casa dove lavorava. Passò anche davanti a una curiosa acquasantiera, che non era altro che una mano
di pietra che nell'incavo teneva solo due o tre gocce d'acqua, e questa volta più decisamente mi sorrise dicendo: “Questo
è un fi ume, anche se fuori ci sono i fulmini”.
Non mi azzardai neanche a chiedergli la spiegazione di quello che mi aveva detto. Gli dissi solamente: “Anch'io” e lui
rispose semplicemente: “Lo so”.
Questo breve dialogo, fatto durante la messa alla quale partecipavo, mi causò un momentaneo senso di colpa, come se
stessi disturbando la funzione, e che io fossi ancora bambino in collegio e l'assistente come al solito dicesse: “Sei il peggio
di tutti” e io gli rispondessi con orgoglio: “Lo so” e lui, come se avesse fatto un tredici al totocalcio, al massimo del piacere,
mi dicesse col dito puntato verso la porta: “Fuori!”
Questo strano senso di colpa mi ha sempre seguito come un qualcosa di inadattabile al misticismo obbligato, un poco
coatto, delle chiese, da San Pietro all'ultima chiesaccia del Bronx, mentre all'aperto mi sentivo vicino a Dio come una zolla
vicino all'albero, o nella terrazza di casa mia di notte, sotto un cielo stellato mi perdo ancora oggi dentro una di quelle
stelle.
Francesco ritrasse la mano dall'acquasantiera, mi guardò e mi disse che anche per lui era sempre stato così, che Dio è
dappertutto, negli alberi, nelle piante, nei fischi lontani dei treni, nel filo spinato, nei denti e nelle bocche che sorridono
come nelle lacrime degli occhi che piangono, per non parlare negli animali, perfi no nel pallone quando entra nella porta
e fa goal, e che forse, qualche volta, a Gesù in ritardo, è capitato di saltare una delle grandi chiese addobbate e di aver
continuato a pregare suo Padre per strada in mezzo al traffico.
Il suono della ‘R' nella parola ‘traffico' mi svegliò improvvisamente, ma mi svegliai con una grande stanchezza alle ali,
come un passero che ha sbattuto contro l'inferriata della sua gabbietta.
Mi resi conto che, per quanto meravigliosa e calda la chiesetta dove si svolgeva la funzione, quella strana atmosfera
di dolce inconveniente che sentivo durante il sogno era finita e che il vero tempio, la vera casa di Dio, è la nostra anima,
anche quella più buia o più difficile da raggiungere, e che Francesco siamo noi al momento della speranza, quando siamo
in attesa e confusi e lo sono soprattutto i nostri sensi e, in un mondo come quello che ci circonda, la nostra pace.
E mentre pensavo e sentivo questo e il frate a conclusione della messa diceva: “La pace sia con voi” io gli risposi: “Francesco,
fammi volare!”.
di Lucio Dalla
Cari amici la rivista San Francesco e il sito sanfrancesco.org sono da sempre il megafono dei messaggi di Francesco, la voce della grande famiglia francescana di cui fate parte.
Solo grazie al vostro sostegno e alla vostra vicinanza riusciremo ad essere il vostro punto di riferimento. Un piccolo gesto che per noi vale tanto, basta anche 1 solo euro. DONA