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Lo 'spirito di Assisi'èdi Shaykh Abd al-Wahid Pallavicini Presidente CO.RE.IS. (Comunità Religiosa Islamica) ITALIANA

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001



Nella prima edizione Mondadori del mio Islam Interiore, in un articolo intitolato “Metafisica e Simbolismo”, citavo le parole di papa Woityla quando aveva affermato che: «Ogni etica deve fondarsi su una antropologia e questa su una metafisica. La crisi dell'etica - continuava il Papa - è il “test” più evidente della crisi dell'antropologia, crisi dovuta a sua volta al rifiuto di un pensare veramente metafisico. Separare questi tre momenti: quello etico, quello antropologico, quello metafisico è un gravissimo errore, e la storia della cultura contemporanea lo ha tragicamente dimostrato».

E continuavo: «Ci siamo permessi di citare le parole della suprema autorità della religione venuta a predominare in Occidente per ribadire la necessità, all'interno di tutte le espressioni religiose, di quella metafisica che, come diceva René Guénon, non è né orientale né occidentale, in quanto rappresenta proprio l'espressione dei principi archétipi insiti in ogni rivelazione.

È proprio sulla base di questa enunciazione che abbiamo voluto, ospiti del Papa nell'incontro di Assisi del 1986, individuare nella metafisica il punto d'incontro al vertice dove tutte le nostre fedi possono convergere nel reciproco riconoscimento di quello che il Dalai Lama ha chiamato “il dialogo fra ortodossie”, sola base per la ricerca, non solo di una «pace trascendente», ma anche della trascendente Verità. Questa verità trascendente è Dio stesso: Huwa-l-Haqq, diciamo noi musulmani, «Egli solo è la Verità», ed Egli solo ci ha rivelato, nei messaggi trasmessi a vari popoli in epoche diverse, verità non parziali, ma necessariamente verità relative all'uomo, il quale, nell'accettazione di questa verità a lui indirizzata e nella pratica religiosa che ne consegue, può risalire a quella Verità assoluta che non è enunciabile, ma che è solo realizzabile nell'unione con Dio stesso».

In un suo recente libro il Cardinale Angelo Scola, Arcivescovo di Milano, forgia un apparente neologismo quando accenna alla “trascendentalità” della persona umana. Ed è a questa “trascendentalità” che il cardinale fa riferire il quinto comandamento «non uccidere», precetto che corrisponde, nel testo del Sacro Corano, al versetto che dice: «chi uccide un uomo è come se avesse ucciso tutta l'umanità». È infatti questa “trascendentalità” dell'uomo, unica fra tutte le creature, che si deve preservare, in quanto l'uomo solo è fatto «a immagine e somiglianza di Dio», o come ancora dice il Sacro Corano, è fatto ‘ala suratihi, «secondo la Sua forma», la forma di Dio.

Proprio a questo proposito in un elzeviro trasmesso alla rivista Jesus lo scorso luglio, avevamo fatto rilevare un altro apparente neologismo attribuito al Cardinale Scola, quando, secondo un articolista del Corriere, era incorso in una “non ordinaria scelta lessicale”, affermando di essere aperto alla “pluriformità nell'unità”, frase che ci aveva permesso di richiamare il concetto espresso dal nostro maestro, René Guénon, proprio a proposito della pluralità delle “forme religiose” che testimoniano i vari aspetti che insieme si ricongiungono nella realtà dell'unicità di Dio.

Questo “neologismo” del Cardinale, preposto alla conduzione dell'Arcivescovado di Milano, insieme con il titolo dell'articolo che vede in Milano - parole del Cardinale - «il punto di riferimento per il dialogo fra le religioni», ci aveva permesso di augurarci che «la nostra prima moschea di italiani, nella stessa città di Milano, si potesse proporre come prodromo di un'intesa al vertice fra le Rivelazioni Abramico-monoteistiche».

Quello che però ci preme far risaltare qui, è il fatto che, se è vero che non si debba uccidere nessuno, altrettanto è vero che non si deve uccidere in noi stessi quella trascendentalità che ci fa simili a Dio anche nella Sua immanenza nel mondo, rinunciando così a quella possibilità che questo stesso mondo e la nostra stessa vita ci offrono di una realizzazione spirituale insita nel dominio interiore di ogni religione ortodossa.

Questa vocazione a una virilità spirituale che si pone ben al di sopra della mentalità corrente nella dimensione verticale di quella croce spazio temporale propria a una umanità soggetta all'attesa escatologica, rappresenta ancora oggi l'adesione all'esempio del sacrificio cristico nell'accettazione della volontà di Dio, termini che insieme costituiscono il vero significato etimologico della parola Islam. La verità infatti non è quella relativa ai dogmi contenuti nelle espressioni teologiche della nostra appartenenza religiosa, ma la Verità è Unica, come Unico è il Dio che le ha formulate perchè noi uomini potessimo, tramite esse e attraverso le conseguenti pratiche rituali, risalire fino a Lui che costituisce proprio questa Assoluta Verità. Per non incorrere, come abitualmente avviene, nella banalità di affermare che per trovare un punto d'incontro fra le nostre rispettive fedi si debba considerare ciò che ci unisce piuttosto che ciò che ci divide, io penso che oggigiorno, al di là delle provvidenziali differenze costitutive sul piano teologico, ci si sia effettivamente allontanati dalla loro formulazione originaria.

Questo allontanamento, che si rileva anche nei confronti della Rivelazione venuta a manifestarsi in questi nostri tempi ultimi, può essere superato solo con la volontà di risalire finalmente al Principio Unico che le ha formulate, che ne costituisce la radice primordiale, e che solo può permetterci di riconoscerne la relativa verità.

Da parte nostra, e intendo qui da parte di noi uomini, si tratta allora di sapersi sottomettere proprio a questa Volontà assoluta, sinonimo di Verità assoluta, tramite le espressioni teologiche relative alle nostre fedi e alla conseguente pratica religiosa, e cioè ortoprassi rituale. L'incontro fra le religioni ortodosse non conduce infatti al sincretismo, né tanto meno al relativismo, ma al riconoscimento che unica è la tradizione che permea le nostre fedi, trasmesseci da tutti i profeti dal tempo della creazione del mondo fino all'avvento messianico finale al quale dobbiamo saperci rivolgere.

Nella presa di coscienza di questa attesa potremo fugare le paure millenarie e contemporaneamente sradicare i tentativi con cui l'Avversario alimenta una viscerale opposizione fra le comunità religiose di veri credenti, offrendo alternative pseudo-scientifiche frutto invece di un vero relativismo sincretistico.

A duemila anni dalla nascita di Sayydna Isa, Nostro Signore Gesù, e nell'attesa del suo ritorno alla fine dei tempi, ricordiamoci allora che, al di là dell'escatologia comune a tutte le vere Rivelazioni, vi è anche la nostra escatologia personale, anch'essa comune a noi tutti.

«Mostreremo i nostri segni agli orizzonti e in loro stessi, sino a che risulti evidente che Questa è la Verità» dice Dio nel Sacro Corano. Come uomini e donne nati in Occidente in quella croce spazio-temporale segnata dalla prima venuta di Gesù, ci compete di saper attendere la parusìa di quella vera seconda venuta che sola, attraverso una riaperta Porta d'Oro a Gerusalemme, potrà finalmente riconciliarci in Dio.

Questo sarà il vero ecumenismo al vertice, l'unico in grado di tendere a una vera pace, quella pace che non deriva solo dalla giustizia e non è ottenibile a qualsiasi costo, ma è fondata su una giustizia superiore che può venire solo dal mutuo riconoscimento della validità spirituale delle nostre differenti fedi, di quella Tradizione abramica alla quale noi tutti partecipiamo.

Ciò che può veramente accomunare i fedeli sinceri è il senso del “sacrificio”, nell'accezione originaria ed etimologica della parola, quella di sacrum facere, rendere sacro ogni momento della nostra vita, nelle forme che Dio ha dato a ciascuno di noi. In questi tempi molto particolari che sembrano “mettere in crisi” anche le religioni abbiamo la responsabilità di intervenire per saper volgere in bene questa “crisi” che ci tocca tutti; crisi nel senso etimologico del termine, quello cioè di “giudizio”, momento della verità inerente allo svelarsi stesso della reale natura delle cose.

Per noi uomini di fede il male risiede infatti solo nell'inganno, che vuol farci guardare altrove e dimenticare Dio, e d'altra parte, l'escatologia che è a noi tutti comune non sarà, come correntemente si dice, “la fine del mondo”, ma, secondo le parole dello Shaykh ‘Abd al Wâhid Yahya, solo “la fine di un mondo”.

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