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Francesco: una vita, due ritratti

Redazione online Maestro di San Francesco, particolare della croce
Pubblicato il 30-11--0001

Biografie per immagini. Una riflessione a proposito della mostra di Perugia sulla «croce dipinta»

Come si trasforma l’immagine di Francesco dai primi anni dopo la morte nel 1226 al tempo degli affreschi di Giotto nella Basilica Superiore di Assisi agli inizi degli anni Novanta? E perché si inventa e si moltiplica l’immagine di Francesco che adora la croce, rappresentato forse per la prima volta nel 1272, data della grande tavola della Galleria Nazionale di Perugia ora esposta nella mostra Francesco e la croce dipinta? Sembrano due storie diverse, ma non è così. Per capire come poteva essere e come voleva rappresentarsi Francesco non possiamo che partire da quello che scrive lui stesso, nella sua prima Regola, quella «non bullata» (1221), cioè non approvata con bolla papale. «La regola dei frati è questa, cioè vivere in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio», dunque nessuna proprietà. E ancora: «Gli altri frati poi che hanno promessa obbedienza, abbiano una sola tonaca con il cappuccio e un’altra senza cappuccio, se sarà necessario, e il cingolo e i calzoni. E tutti i frati portino vesti simili e sia loro concesso di rattopparle con stoffa di sacco e di altre pezze con la benedizione di Dio». E ancora: «Nessun frate, ovunque sia e dovunque vada, in nessun modo prenda con sé o riceva da altri o permetta che sia ricevuta pecunia o denaro». Dunque vita di elemosina, in estrema povertà.

Ma come sono le prime immagini del santo? Nella tavola con Francesco e sei miracoli del museo nazionale di San Matteo a Pisa lo vediamo barbuto, scalzo, il cappuccio levato; la stessa immagine torna nella tavola di Bonaventura Berlinghieri del 1235 (Pescia, chiesa di San Francesco) con il santo e i suoi miracoli. Le figure di Francesco si moltiplicano, anche alte poco più di un metro, adatte alla meditazione: così le due di Margaritone di Arezzo nel museo della città: siamo verso il 1262, il santo, scalzo, è visto di fronte, un filo di barba, il cappuccio levato, in evidenza le stimmate, in atto di benedire. Passano vent’anni e Cimabue, in una tavola (Assisi, Museo della Porziuncola) di misure analoghe, propone il santo con il saio sdrucito, la barba, scalzo, le stimmate, l’aureola. Lo stesso Cimabue riprende la stessa immagine di Francesco nella Basilica Inferiore di Assisi, a lato della Madonna in trono. Insomma dura per almeno due generazioni, fino all’arrivo di Giotto, una iconografia francescana molto precisa che evoca la povera vita del santo che ha per compagno il libro, i Vangeli.

Torniamo ora alla grande croce (488,5 x 355 centimetri) del Maestro di San Francesco dalla quale siamo partiti. Questa e le altre di simili dimensioni erano sospese nelle chiese in alto, sul tramezzo, al limite fra navata e presbiterio, in diretto dialogo coi fedeli. Qui il Cristo è morto sulla croce, in alto l’Eterno e sotto la Madonna e due angeli, ai lati la Madonna e San Giovanni, sotto Francesco che sfiora i piedi trafitti del Cristo. Un Francesco certo più composto rispetto alla tradizione di immagini che abbiamo analizzato, il saio che ne modella il corpo. La croce propone il Cristo morto, come nella grande croce di Giunta Pisano datata 1236 per il tramezzo della Basilica Superiore di Assisi, ora perduta, voluta dal Generale dell’ordine francescano frate Elia che si fa rappresentare ai piedi della croce «non nella posa del compunto committente, ma di chi sa di essere ascoltato, le mani e gli occhi levati verso Cristo» (Chiara Frugoni). Diversamente da Elia, nella croce del 1272, Francesco esprime devozione e umiltà, non presunzione. Nel Medioevo ogni gesto è un segno, ogni particolare un racconto. Ricordo poi che Francesco, agli inizi della conversione, adora il Crocifisso di San Damiano (XII secolo, ora ad Assisi, basilica di Santa Chiara), e quello è un crocefisso vivente, gli occhi spalancati, che trionfa sulla morte.

Nella mostra di Perugia (aperta fino al 29 gennaio) vediamo ancora una croce processionale più piccola (128,5 x 78 centimetri), dipinta sui due lati, ancora del Maestro di San Francesco, che si data 1275-1280. Di nuovo Cristo morto, in alto la Madonna e due angeli, ai fianchi la Madonna e Giovanni, sotto Francesco che bacia i piedi del Salvatore il cui sangue cola sul Golgota dove vediamo sepolto il teschio di Adamo. Ancora una croce, ora a Orvieto, attribuita al Maestro di Varlungo (197 x 171 centimetri), fortemente legata a Cimabue: il corpo del Cristo morto appare morbidamente disteso, un velo trasparente gli copre i fianchi e qui, ai piedi della croce, vediamo una lacuna, come un profilo di figura che abbraccia i piedi del Cristo, forse proprio un San Francesco. Ancora sui crocefissi. Quello del Maestro di Cesi, ormai attorno al 1295, conservato al Museo Nazionale di Spoleto, è diverso: ecco il Cristo trionfante, il Cristo vivo: infatti il Maestro di Cesi conosce il primo Giotto ad Assisi. L’immagine è complessa: in alto il Pantocratore in mandorla fra due angeli; agli estremi della croce Santo Stefano e San Tommaso, ai fianchi del Cristo la Madonna e San Giovanni; infine, in basso, una singolare coppia, San Francesco e San Domenico, manca la zona sottostante, forse con il Golgota. Alla venerazione del solo Francesco si unisce dunque quella per Domenico; lo stesso Francesco appare composto, pacatamente abbigliato, a volte con bei calzari, negli affreschi di Giotto della Basilica Superiore di Assisi.... (ARTURO CARLO QUINTAVALLE - Corriere della Sera 31.12.2016)

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