religione

PASQUA, LE OMELIE DI PADRE MAURO GAMBETTI

Redazione online Mauro Berti
Pubblicato il 15-04-2017

Venerdì Santo

Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate.

Il discepolo amato, rispetto agli altri evangelisti, narra i fatti abbassando i toni drammatici della passione e morte di Gesù, anche se è il solo tra gli apostoli ad aver assistito alla sua agonia, averne visto gli spasmi, aver udito i rantoli… Non ha dimenticato. Giovanni conosce tutto il dramma, anche perché era accanto alla madre. Conosce la sofferenza e il dolore più buio del Crocifisso, se non altro attraverso gli occhi di Maria: la sua testimonianza è vera. Però, non è la sofferenza di Gesù che ci salva e nemmeno la consapevolezza della sofferenza; ma non ci salva neanche la partecipazione alla sua sofferenza; e nemmeno il pentimento.

Egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Scrive perché possiamo credere. Ricordate la risurrezione di Lazzaro? Gesù aveva detto ai discepoli: sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate. Una malattia, quella di Lazzaro, che non era per la morte ma per la glorificazione del Figlio di Dio. Un appello alla fede dei discepoli, alla nostra fede, per poter vedere la gloria di Dio. Il Vangelo che abbiamo ascoltato ha lo scopo di introdurci nella visione della gloria di Dio, la conoscenza dell’amore del Padre per l’Uomo.

Allora, cosa ci salva? Soltanto riconoscere che Gesù crocifisso è il Figlio di Dio, è il Re messia, è il Signore… solo questo ci salva. Occorre stare sotto la croce come Maria, che vede morire il Figlio di Dio e non tanto suo figlio. Come Giovanni, che testimonia di aver visto morire il Re dei Giudei, il Messia, il Figlio di Dio. E si deve stare in croce come il ladrone, non buono ma credente, che riconosce in Gesù il Re Signore: Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno. Solo così ci raggiunge la salvezza: In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso. In questa prospettiva andrebbe riletta la lettura tratta dal profeta Isaia. Illuminante! Rileggiamola a casa.

Ma da cosa ci deve salvare Gesù? Dalla morte, dalla sofferenza…? Attenzione. Noi cristiani abbiamo uno strano rapporto con la sofferenza. La vorremmo fuggire come tutti, ma siccome Gesù ci ha dato l’esempio, sopportiamo i nostri patimenti concludendo un po’ frettolosamente: soffro anch’io per amore. Il problema è che soffriamo per amore, ma non siamo contenti, non vi è gioia nell’amare nei nostri occhi, nei nostri cuori. Che spiritualità è mai questa? La sofferenza appartiene all’esperienza umana, non propriamente a quella cristiana. Come tale va accettata ed affrontata. Punto. Gesù soffre e muore in croce. E in lui c’è la morte di ciascuno di noi, non solo corporale. In lui è inchiodata sulla croce la vera morte che ci riguarda, perché con Gesù è morta ogni stilla di innocenza dell’umanità, ogni goccia di giustizia che si può trovare tra i viventi, ogni sentimento e ogni moto d’amore che l’umanità può profondere. È la morte che il peccato causa in noi ad essere assunta e vinta da Gesù. Lo abbiamo riascoltato nella lettera agli ebrei.

Vuoi che la morte e la sofferenza siano vinte? Allora, chiediti: da cosa deve salvarmi Gesù? Sia che tu sia sotto la croce di Gesù sia che tua sia in croce con lui, se non fuggi come gli infedeli la tua umanità è messa a nudo: di quale innocenza, di quale giustizia, di quale amore puoi vantarti? Puoi vantarti solo di Gesù, della sua innocenza, della sua giustizia, del suo infinito amore che è lo stesso amore del Padre per noi: questa è la gloria di Dio. E tu?

Anche oggi prendo a testimone Francesco d’Assisi, forse più vicino alla nostra esperienza rispetto ai testimoni oculari dei vangeli. Narrano le fonti che Francesco si aggirava per la campagna e per i boschi piangendo perché – gridava – l’amore non è amato. Contemplava la passione di Gesù e piangeva, perché l’amore non è amato. Capite: non è al centro la sofferenza di Gesù, non è tanto essa a colpirlo. Francesco ha incontrato il crocifisso attraverso l’icona che si trovava a San Damiano e che ora è conservata a Santa Chiara: il Gesù glorioso sulla croce, con gli occhi aperti. E lo ha incontrato nelle piaghe della sofferenza umana, in particolare dei lebbrosi. Ebbene, io penso che lui abbia fatto sintesi, come Giovanni, come Maria, come il ladrone, il centurione…: Francesco contempla Gesù che patisce con la consapevolezza del credente, e dice qualcosa del tipo: tu sei il Figlio di Dio, l’innocente, il giusto, l’amato e l’amante; tu, che mi ami fino a questo punto, perché non sei amato da me fino a questo punto? Perché io non amo i fratelli fino a questo punto? Perché non amo come tu ami? Perché non ci amiamo come tu ci ami? Questa è la vera morte dell’uomo. L’amore non è amato! Salvami!

Restiamo con Maria, attoniti e sconvolti, ma credendo con il cuore e ripetendo con le labbra la nostra professione di fede. Per il nostro pieno abbandono a lui, il Figlio di Dio, saremo esauditi. La salvezza verrà. Non tarderà.

Giovedì Santo

È la Pasqua del Signore… Lo celebrerete come un rito perenne.

Un rito senza fine e senza tempo: eterno. Tale la pasqua del Signore. Questo è il cuore dell’esperienza di fede. È anche il cuore dell’esperienza umana, di piena umanità, cui partecipare con i fianchi cinti, pronti a partire. Da quella terra partiamo? Verso dove andiamo?

Al cuore dell’esperienza umana vi è il pasto naturale dell’allattamento al seno di una madre, nel quale non mancano aspetti sacrificali. Si partecipa al pasto, ci si nutre, per partire; con mamma e babbo nell’avventura della vita per divenire uomini.

Al cuore dell’esperienza di fede vi è un pasto sacrificale. Si partecipa alla cena pasquale per partire con il Signore, uscire e compiere un esodo dal mondo del faraone, da noi stessi, da quell’impalcatura mentale, da quel sistema che ci fa considerare la felicità come il frutto di conquista, di possesso, di grandezza.

Nella cena pasquale, dove familiarità e tradimento si intrecciano indissolubilmente, tanto da non poter pensare di vivere il pasto della salvezza senza il sacrificio che consegue al tradimento, nella cena pasquale, dicevo, dopo aver spezzato il pane e distribuito il vino istituendo l’eucaristia e con essa il sacerdozio ministeriale, perché si possa perpetuare senza fine e senza tempo la sua pasqua,… ebbene nella cena pasquale, in cui Gesù invita i discepoli a condividere il pasto sacrificale con i fianchi cinti, i sandali ai piedi e il bastone in mano, Egli compie il gesto della lavanda dei piedi che esplicita, insieme alle parole pronunciate sul pane e sul vino appena riascoltate dall'apostolo Paolo, la nuova logica del mondo, la nuova logica dell’umanità liberata dalla schiavitù del faraone, dalla mentalità che pensa la felicità come frutto di conquista, possesso, grandezza, autorealizzazione. Compie quel gesto e ci invita a partire con lui verso la terra promessa: vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.

L’evangelista Giovanni rilegge la vicenda di Gesù, la Pasqua del Signore, con i sentimenti del discepolo amato e pone l’accento sulla consapevolezza e l’amore del Maestro: sapendo che era venuta la sua ora… sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e sapendo che era venuto da Dio e a Dio ritornava… sapeva chi lo tradiva; avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine.

Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto: tutto! Tutta la bellezza del mondo, tutta la forza dell’esistenza, tutta la gioia dell’amore, …la vita e la morte, tutta la vita che non ha fine. Li amò fino alla fine, fino in fondo. Nel gesto della lavanda dei piedi narrato dall’evangelista, è come se Gesù riversasse ogni cosa, la sua stessa vita, nell’acqua usata per i piedi dei discepoli, perché possano partire con lui. Si china, si piega, si sottomette, per fare misericordia, per condividere tutto.


Francesco d’Assisi ha guardato con insistenza, non coerentemente ma continuamente, a Gesù ed è partito con lui dopo aver mangiato con lui. Dell’esperienza pasquale, della vita eucaristica, Francesco ha fatto la bussola per orientarsi nell’esistenza. Dell’eucaristia ha colto l’essenza che gli ha fatto cambiare mentalità: la felicità è frutto di un dono. Attento. Tutto ti è messo nelle mani. Devi esserne consapevole. Tu ricevi forza per lavorare, energia per pensare, fratelli per amare. Non è vero che il lavoro è innanzitutto un diritto o un dovere. È un dono. Come lo è il salario. Se qualcuno lavora per me… è un dono che mi fa. Se ricevo lo stipendio è un dono che mi viene ricambiato. Se qualcuno siede accanto a me e qualcuno cammina con me, è un dono. Non si tratta di conquista, di possesso, di grandezza. Uscire dalla terra del faraone, significa essere liberati dalla schiavitù del potere, dell’avere e della grandiosità. La libertà, infatti, è essere, essere in ogni creatura senza che alcuna mi appartenga.

Tutto è dono e occorre sapere che tutto viene da Dio. La vita viene da Dio. Allora, nutriti per partire. Devi sapere verso dove stai andando.  Ritorni a Dio, è quasi un’evidenza. Ma attraversi molte terre, nelle quali devi scegliere come impiegare il dono, i doni ricevuti. Francesco intuisce che l’unico modo per impiegare bene il dono è rispettarne la natura: il dono non si può possedere, non si può strumentalizzare… il dono per sua natura è condivisione, è dono, è ringraziamento. Francesco vive il dono, ogni dono, nella logica del rendimento di grazie, “rendendolo” con riconoscenza e così conservandolo nella sua natura e moltiplicandolo secondo la sua natura. Tutto è dono, tutto è da donare. Anche la vita.

Così, alla fine della vita Francesco compie un gesto che è come un testamento scritto con la carne: con i fratelli raccolti intorno a lui morente, compie un rito che è un memoriale dell’eucaristia. Lui che non è sacerdote, vive l’ultimo passaggio dell’esistenza, la sua pasqua, come un sacerdote, come Gesù sommo sacerdote.

L’intercessione di Maria e di san Francesco ci aiutino a prendere consapevolezza del Dono che ci è messo tra le mani e a viverlo in “rendimento di grazie”.

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