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Assisi e gli Ebrei, trecento trovarono rifugio nella città di san Francesco nel 1943

Redazione
Pubblicato il 30-11--0001

«Ieri e oggi, i Giusti sempre necessari», questo è il tema scelto per celebrare, il 6 marzo, la Giornata europea dei Giusti, giunta quest'anno alla terza edizione, istituita nel 2012 dal Parlamento europeo su proposta dell'onlus Gariwo per «ricordare chi ha saputo cercare il bene con la scelta di difendere la dignità umana nei momenti bui» mettendo a repentaglio la propria vita e opponendosi a ogni totalitarismo e ai crimini contro l'umanità. In questo giorno ad Assisi, nella Piazza del Vescovado, verrà inaugurato il Giardino dei Giusti.

Un'occasione per rievocare la storia esemplare della città umbra che, nel periodo più tragico della seconda guerra mondiale, accolse migliaia di persone, soprattutto ebrei. Gli sfollati, infatti, trovarono sostegno e ospitalità presso il vescovado, nei monasteri e negli istituti religiosi, grazie alla capillare rete di assistenza clandestina allestita - seguendo l'esempio di tante altre diocesi italiane come quella di Firenze e Genova - dal vescovo Giuseppe Placido Nicolini coadiuvato dal clero diocesano guidato dal suo braccio destro, il canonico don Aldo Brunacci, all'epoca dei fatti narrati giovane sacerdote della cattedrale di San Rufino di Assisi.

Subito dopo l'armistizio firmato dal Governo Badoglio, verso la fine del settembre 1943, monsignor Nicolini chiamò don Aldo in disparte e lo esortò a prendersi cura di tutti i profughi - comprese le persone di origine ebraica - mostrandogli una lettera che aveva appena ricevuto dal Vaticano in cui erano contenute precise direttive in merito. «Io vidi realmente questa lettera - raccontò a chi scrive alcuni anni or sono don Aldo Brunacci - che monsignor Nicolini aveva fra le mani quando mi chiamò in disparte. Gli era stata inviata dalla Segreteria di Stato della Santa Sede. Mi lesse il contenuto integralmente».

Con il contributo di alcuni volontari laici e religiosi - come il guardiano del convento di San Damiano fra' Rufino Niccacci, che spesso si recava a Firenze dal cardinale Dalla Costa per ricevere «istruzioni, indirizzi e mezzi di finanziamento», il giovane frate del sacro Convento di San Francesco Michele Todde, la superiora della Clarisse Colettine suor Hélène e quella delle Clarisse di San Quirico suor Giuseppina Biviglia - fu allestita presso il vescovado un'efficiente organizzazione di assistenza per tutti i profughi. Successivamente, ci si preoccupò di stampare nella tipografia di Luigi e Trento Brizi, nei pressi di piazza Santa Chiara, centinaia di carte d'identità e tessere annonarie falsificate, poi smistate al convento di San Quirico dove, sotto la supervisione dei due ufficiali lì nascosti - il colonnello Paolo Gay e il tenente Antonio Podda - venivano completate con nomi fittizi di persone provenienti da zone già occupate dagli Alleati e quindi non accessibili al controllo dei nazifascisti.

Un anello fondamentale di collegamento con la curia fiorentina era il celebre Gino Bartali che, fingendo di allenarsi in sella alla sua bicicletta, macinava chilometri su chilometri per trasportare - nascosti nel telaio - i documenti falsificati da Assisi a Firenze. Dopo l'8 settembre 1943, per sfuggire alle persecuzioni razziali, giunsero nella città umbra circa trecento ebrei di varia nazionalità - come le famiglie Viterbi, Fano, Jakobson, Baruch, Kropf, Majonica, Eppinigi, Romanoski, Lyovin e Corinaldi - che trovarono rifugio tra le mura dei conventi e nel vescovado. Monsignor Nicolini non esitò a trasformarsi in muratore, occultando in un vano dei sotterranei tutti i documenti, i libri sacri e gli oggetti di valore degli ebrei ospitati. I conventi che si rivelarono più sicuri in questa catena di solidarietà furono quelli di clausura femminili come quello delle Clarisse di San Quirico, delle Stimmatine, delle Benedettine di Sant'Apollinare, delle Colettine e quello di Santa Croce delle Suore Cappuccine tedesche. Grazie alla segnalazione di padre Michele Todde, Marco Baruch - un commerciante di tessuti proveniente da Fiume - con la moglie Erminia Lipschitz e le tre figlie Lea, Hella e Mira furono nascosti da don Aldo Brunacci dapprima nel convento delle suore claustrali di San Quirico, poi, all'inizio di dicembre, nella foresteria del monastero delle Clarisse Cappuccine tedesche. «Per uscire dal convento - ricorda nel suo memoriale Lea Baruch - c'era bisogno di documenti falsi. Furono preparati da Giorgio Kropf con l'aiuto di un tipografo, Luigi Brizi, nella sua tipografia. Brizi stampava le carte d'identità e le portava a Giorgio che, coi suoi compagni a San Quirico, scriveva i nomi e gli altri dati». Poi, con la scusa che le carte si erano deteriorate, con la complicità di un'impiegata dell'anagrafe, Marcella Paladin, si scambiavano queste con quelle originali e il gioco era fatto. Da quel momento in poi i Baruch presero il nome di Bartoli, una famiglia originaria di Bojano in provincia di Campobasso, e Lea si chiamò Ileana. Provvisti di questi falsi documenti, si spostarono presso il convento delle Suore Stimmatine, dove furono nascosti nell'ala destinata agli ospiti. Appena la situazione lo permise, verso la fine di gennaio del 1945, si trasferirono in Israele, ad Haifa, dove vivono tuttora. (Giovanni Preziosi - Osservatore Romano)

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