fede

San Francesco e la malattia

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Si prova sempre un notevole imbarazzo a parlare del dolore: da un lato se ne ha quasi paura; dall'altro, forse, si teme di cadere nella superficialità o, peggio ancora, nella retorica. Eppure la sofferenza è connaturale alla nostra vita, è parte ineliminabile di essa; è una dimensione del vivere quotidiano, in tutta la sua drammatica e cruenta realtà, e Francesco è riuscito a mostrarne la luce, lui che lodava Dio per quelli che sostengono “infirmitate e tribulatione” e “per sora nostra morte corporale” (Cant 10.12: FF 263)..

Conosciamo abbastanza bene il lungo calvario vissuto da Francesco. Una salute di ferro, in effetti, egli non l'ha mai avuta. Era delicato per natura. Da giovane, quando inseguiva sogni di gloria, fu spesso bloccato dalla malattia: ormai ventenne, nella guerra che oppose assisani e perugini, durante la battaglia di Collestrada, presso Ponte San Giovanni, quasi a metà strada tra Perugia e Assisi, egli fu fatto prigioniero. Condotto in carcere a Perugia vi rimase per circa un anno, tra il 1203 e il 1204. Con molta probabilità, quella prigionia minò il suo fisico, che già non doveva essere di ferro: Tommaso da Celano ci dà notizia di una lunga malattia (febbri malariche?) da cui fu afflitto dopo la prigionia, una volta tornato nella casa paterna (1Cel 3: FF 323), ma quasi sicuramente questa era sopraggiunta già durante la carcerazione; fu proprio durante quella malattia che in Francesco cominciò a manifestarsi un mutamento interiore.

Qualche tempo dopo, un nobile di Assisi organizzò una spedizione per andare in soccorso di Gualtieri di Brienne, che nelle Puglie combatteva a capo delle truppe di Innocenzo III. Francesco decise che quella era l'occasione che aspettava per coronare i suoi sogni di gloria e divenire finalmente cavaliere, operando così quel salto nella scala sociale che lo avrebbe introdotto nel mondo dei nobili. “Messosi dunque in cammino per raggiungere la Puglia, giunse fino a Spoleto, e qui cominciò a non sentirsi bene”. Durante la notte il Signore lo visitò e nel sogno gli chiese: “Chi può far meglio per te: il signore o il servo?” (3Comp 6: FF 1401). In due occasioni la malattia divenne quindi per Francesco occasione di incontro con Dio.

Le fonti che ci narrano dei suoi sforzi per restaurare la chiesa di San Damiano ribadiscono quanta sorpresa destasse il fatto che egli, tanto delicato, si mettesse a portare le pietre sul¬le sue spalle (3Comp 21: FF 1421). Attraverso una testimonianza dei compagni, veniamo a sapere che, prima del suo viaggio in Terrasanta, Francesco fu costretto ancora una volta a fermarsi a motivo di un'infermità. Dicono infatti che, “nel tempo in cui nessuno ancora veniva ricevuto nella vita dei fratelli senza licenza del beato Francesco, il figlio di un nobile di Lucca (nobile secondo il mondo) venne con altri che volevano entrare nella religione: Francesco era allora malato, e dimorava nel palazzo del vescovo di Assisi” (CAss 70: FF 1598).

Nel 1219, Francesco si recò nelle terre d'Oltremare. Ritornò in Occidente l'anno seguente, riportando con sé un'altra piaga, che martoriò ulteriormente, fino alla fine, il suo corpo già abbondantemente segnato: “Per lungo tempo e fino alla morte Francesco soffrì malattie di fegato, di milza e di stomaco, e dal tempo in cui si recò oltremare per predicare al soldano di Babilonia e d'Egitto contrasse una gravissima malattia agli occhi, in seguito al molto lavoro causato dalle fatiche del viaggio, poiché all'andata e al ritorno dovette sopportare una grande calura. Non volle tuttavia avere alcuna sollecitudine per farsi curare da nessuna di queste malattie, per quanto ne fosse pregato dai suoi fratelli e da molti che ne sentivano pietà e compassione: e ciò per il fervore di spirito che dall'inizio della conversione egli portava a Cristo” (CAss 77: FF 1608). Questa malattia agli occhi non concesse tregua a Francesco. A ciò si aggiungano le febbri malariche che, a intermittenza, gli provocavano fortissime crisi: una dovette sopportarla intorno al 1220-21, secondo quanto testimoniano i compagni, che raccontano un episodio emblematico del rapporto instaurato da Francesco con se stesso e il proprio corpo durante le fasi acute della malattia (CAss 80: FF 1610).

Francesco, fisicamente sempre più debole, anche per le penitenze alle quali si era sottomesso, manifestò una grande durezza verso il proprio corpo. Atteggiamento eccessivo? Rigore inumano? Durezza spietata? Concezione pessimistica della vita? Niente di tutto ciò. Come scrisse Raoul Manselli, Francesco, “per la sua fede profonda nella bontà del Dio creatore, non avverte, in fondo, neppure sul piano della constatazione reale, quello che sulla scia di sant'Agostino si chiamò il male metafisico. Per san Francesco, il brutto, il difettoso non c'è. La creazione, per il fatto stesso che è opera di Dio, è bene. Ma a questa conclusione non giunge per una meditazione filosofica, quanto piuttosto per un'intuizione globale di tutta la realtà, in quanto opera divina e, perciò stesso, positiva. Il ragionamento filosofico agostiniano è, quindi, superato non in base ad una concatenazione di ragionamenti filosofici, ma per l'impulso spontaneo di Francesco a cogliere la positività della vita. Rimane il dolore. E qui Francesco si vede accanto il Cristo crocifisso, la sofferenza «umana» degli uomini, che si può vincere solo nell'unione a Cristo e nella carità di Cristo. E' forse questo il punto più difficile e, insieme, più rivoluzionario dell'atteggiamento di Francesco. La crocifissione, infatti, non è per lui un fatto che sia lontano nel tempo e nello spazio, ma una realtà permanente che ha imparato a vivere e sentire con intensità profonda. Se ancora negli anni 1216-1220 ha avvertito il bisogno di andare in Palestina, per desiderio di trovare, forse, nella terra stessa di Cristo il martirio, successivamente si rende conto che il martirio ci può essere anche senza i saraceni, quando si accetta serenamente la fame, la malattia e il dolore. Se noi dobbiamo e vogliamo cogliere in Francesco un'evoluzione interiore che, a nostro avviso, è storicamente innegabile, ebbene ci sembra che il momento ultimo, e forse più alto, di quest'evoluzione sia, precisamente, la presa di coscienza del significato e del valore esemplare del Cristo crocifisso” (R. MANSELLI, Nos qui cum eo fuimus. Contributo alla questione francescana, Roma 1980, pp. 275-276).

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