fede

Il 'Padre nostro' entra in galera

Redazione Pixabay
Pubblicato il 14-01-2019

Fra’ Beppe Giunti commenta la preghiera di Gesù con i 'fratelli briganti' del carcere di Alessandria

Che significato ha la preghiera dentro un carcere? Come si fa a tenere insieme la verità e la dignità di ogni persona, uomo e fratello come noi, e la verità della sue azioni, in questo caso negative e per questo meritevoli di sanzioni? Fra’ Beppe Giunti ha trovato la porta di accesso ai cuori dei detenuti della casa di reclusione “San Michele” di Alessandria chiamandoli semplicemente – come suggeriva Francesco d’Assisi – «fratelli briganti».

«Quando i suoi frati gli chiedono direttamente se è giusto o no dare una mano ai briganti che vengono a bussare alla porta della fraternità, la risposta di san Francesco – spiega il frate conventuale – contiene un vero e proprio protocollo per avvicinare il mondo della criminalità e della devianza e ci consegna ancora a distanza di secoli una visione straordinaria e profonda. Intanto dà un obiettivo: conquistare le vite di quei fuorilegge. Non punta sulla sicurezza delle strade o sulle paure degli abitanti di Borgo San Sepolcro. Si focalizza sulla vita, sbagliata al momento. Poi si concentra sul togliere la causa prima della loro azione criminale, la fame: “comprategli da mangiare e da bere”. Quindi dovranno gridare forte le due verità apparentemente opposte e incompatibili: “Fratelli briganti”. Siete briganti, certo, ma nessuno può togliervi la qualifica di nostri fratelli. Dopo pranzo, aggiunge, cominciate a chiedere di astenersi dalla violenza, è il minimo per andare avanti».

I briganti – riportano le Fonti – «furono conquistati dall’umiltà e dalla benevolenza, rappresentate dalla tovaglia posta per terra, alla loro misura». E alla fine eseguono «punto per punto» il programma: «restituiscono ciò che hanno ricevuto ed entrano nella logica del dare una mano, aprendosi alla misericordia di Dio che “li ispirerà a ravvedersi”». Fra’ Beppe ha portato così il «Padre nostro che sei nei cieli» dietro le sbarre.

E ora, con i fratelli briganti, racconta l’esperienza vissuta insieme in "Padre nostro che sei in galera" (Edizioni Messaggero Padova, pagine 120, euro 11,00), un testo semplice ma prezioso, che «fa sentire l’eco speciale e unica di questa preghiera, quando è sussurrata da queste persone e rimandata da questi muri». In galera, sì. «Usiamola con coraggio questa parola – scrive fra’ Beppe –, che indicava in antico le navi sulle quali si poteva essere condannati a remare e remare e remare». Un viaggio che si può affrontare con la preghiera. Come una compagnia. «In questo luogo della solitudine personale, dove ciascuno fa i conti con sé stesso, rivolgere pensieri e parole al Padre è spezzare il cerchio rigido e freddo dell’isolamento».

C’è un “Tu” a cui rivolgersi. Che è “Nostro”. Di tutti. Che è «Padre, e non padrino». Nostro, «un aggettivo fuori moda, fuori sintonia in un tempo saturo di individualismo, di solitudine, di cuori ripiegati su cellulari e ombelichi». «Come sarebbe più sicuro se Dio fosse solo mio, se potessi risolvere le mie faccende solo con lui, senza dover sempre alzare gli occhi per vedere l’orizzonte umano delle mie azioni, dove si ribaltano le conseguenze dei miei “pizzini”, dei miei ordini portati in giro dai “suldati” del mio clan. Alzo gli occhi verso i suoi e sento la sua voce che chiede: “Dov’è Abele, tuo fratello?”».

La preghiera scorre con le riflessioni dei fratelli briganti: «dacci oggi il nostro pane quotidiano» fino al «liberaci dal male». I fratelli briganti e il Padre nostro. Un incontro guidato da fra’ Beppe, con la sua umanità e la testimonianza che svolge in carcere con gli operatori delle cooperative sociali Coompany& e Coompany2. Una preghiera e un viaggio che preparano l’«Amen». Qui la riflessione fa vibrare le corde del cuore.

«È un soffio questa parola. Esile ma potente, condivisa in ebraico, greco, latino, arabo, italiano. Certamente. Così sia. Ma non è anche la parola con la quale ho firmato le mie deposizioni? “Amen” è verità. È sicuro quello che ho detto, ci metto il nome e cognome, con la mia responsabilità personale».

L’«Amen» della deposizione spesso coincide con il pianto, «un pianto irrefrenabile, che somiglia al primo pianto della vita, quando appena nato il bambino prende fiato da sé e diventa persona altra, dalla madre. Anche quel pianto fa nascere. Solo gli ipocriti non piangono, hanno dimenticato questo dono di Dio. Se vuoi tornare a essere una persona autentica devi scegliere la verità. Dichiarata e firmata».

Padre nostro che sei in galera. Liberaci dal male. Amen. (Giuseppe Matarazzo - Avvenire)

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