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Francesco, la guerra, le armi

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Francesco di fronte alla guerra e alle armi. Tornare a riflettere sul suo insegnamento può offrirci qualche luce in un tempo come il nostro, scosso da molte guerre, alcune sotto le luci della ribalta, molte altre (ahimè) tristemente e vergognosamente dimenticate. Come ha detto papa Francesco, siamo ormai nel mezzo di una terza guerra mondiale, anche se combattuta a pezzi!

  Nella sua giovinezza anche Francesco era stato uomo d’armi: combatté contro i perugini a Collestrada, dove fu fatto prigioniero; la dura esperienza del carcere, tuttavia, non lo scoraggiò, tanto che sognava nuove imprese militari, sperando di ricavarne gloria e ascesa sociale: voleva conquistarsi un titolo nobiliare e la guerra gli appariva come la via più breve per raggiungere lo scopo. Poi incontrò il Signore, come Paolo sulla via di Damasco; capì allora che non doveva cercare la gloria sua, ma quella di Dio: quel Dio “Principe della Pace” (Is 9,5), che era venuto a portare la pace che il mondo non può dare (Gv 14,27) e chiedeva anche a lui, Francesco, di riporre la spada nel fodero (Mt 27,52). Divenne cioè cosciente del fatto che solo il Signore avrebbe potuto donare la pace agli uomini, nel momento in cui questi sarebbero stati disposti a disinnescare i meccanismi esplosivi annidati nel proprio universo interiore. Tale convinzione risalta con piena evidenza nei suoi scritti.

Nella Regola non bollata, portata a compimento nel 1221, si afferma: “Quando i frati vanno per il mondo, non portino niente per via [...]. Non resistano al malvagio, ma se uno li avrà percossi su una guancia, gli offrano anche l’altra”. Nella Regola bollata (1223) si chiede ancora loro “di avere umiltà, pazienza nella persecuzione e nella infermità, e di amare quelli che ci perseguitano e ci riprendono e ci accusano”. E nel famoso Cantico di frate sole Francesco esclama: “Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore e sostengo infirmitate e tribolazione”.

  Poco prima della Pentecoste del 1223, scrivendo a un frate che esercitava il governo su altri frati, i quali, però, lo facevano molto soffrire, Francesco propose la logica paradossale e disarmante del Vangelo: “Io ti dico come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti impediscono di amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri, anche se ti percuotessero, tutto questo devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni per te in conto di vera obbedienza [da parte] del Signore Iddio e mia, perché io so con certezza che questa è vera obbedienza. E ama coloro che ti fanno queste cose. E non aspettarti da loro altro se non ciò che il Signore ti darà. E in questo amali, e non pretendere che siano cristiani migliori”.

  Interessante è poi il capitolo XVI della Regola non bollata, scritto, molto probabilmente, dopo l’esperienza di Francesco in Terrasanta, quindi tra il 1220-1221: due sono i modi in cui quei frati che, per divina ispirazione, vogliono recarsi tra gli infedeli “possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace a Dio, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo”. Quindi, solo dopo essersi sincerati che ciò piaceva al Signore, i frati potevano annunciare agli infedeli la fede trinitaria, mentre era sempre e comunque possibile la vita nascosta, che non aveva altro modo di porsi se non in una muta e silenziosa testimonianza, senza promuovere liti né questioni, restando sottomessi a ogni creatura. Non solo. In quello stesso luogo si ricorda a tutti i frati che, “dovunque sono”, “hanno donato se stessi e hanno abbandonato i loro corpi al Signore nostro Gesù Cristo. E per il suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili, poiché dice il Signore: «Colui che perderà l’anima sua per me, la salverà per la vita eterna»”.

Tutte le testimonianze sono concordi nel sostenere che, durante la sua permanenza nelle terre d’oltremare, il Santo utilizzò soltanto la Parola di Dio, “più tagliente di una spada a due tagli” (Eb 4,12); una Parola predicata al nipote di Saladino, quel Malik al-Kamil, che non si convertì al cristianesimo, come sperava Francesco, ma fu capace di ascoltare e si mostrò magnanimo e tollerante. Un incontro che stupì, al punto che non solo fonti d’origine cristiana, ma anche fonti islamiche ne recano una qualche, seppur debole, traccia.

  Nella Regola francescana non si accenna mai alle armi, a differenza di quanto si può leggere nelle Regole degli Ordini monastico-militari, e questo per una ragione molto semplice: le armi erano estranee all’universo mentale di Francesco e dei suoi. Fu un insegnamento chiaro il suo, tanto nella teoria quanto nella prassi. Basti pensare che appena pochi anni dopo la morte dell’Assisiate, nel 1233, francescani e domenicani furono attivamente impegnati in una grandiosa campagna di pacificazione (nota come il “Movimento dell’Alleluia”) che coinvolse diverse città del nord e del centro Italia, fino a giungere, in molti casi, all’adozione di nuovi statuti cittadini: un evento che mostrò quale lievito sociale potesse innescare l’utopia evangelica.

Certo, non sempre è stato così e molte volte anche i francescani non hanno esitato a compromettersi in prima persona in episodi bellici. Tornare a riflettere oggi sull’insegnamento di Francesco può essere, per tutti, occasione e stimolo per un rinnovato impegno di pace. Una pace, come insegnava il santo papa Giovanni XXIII, basata sulla verità, sulla giustizia, sulla solidarietà operante e sulla libertà. 

Di Don Felice Accrocca e Padre Enzo Fortunato

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