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Kabul, alla Corte suprema il caso della «Asia Bibi afgana»

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Sarà la Corte suprema dell'Afghanistan a dire una parola definitiva per il caso di Farkhunda Malikzada, la donna musulmana di 27 anni linciata dalla folla il 19 marzo 2015 con l'accusa di aver bruciato una copia del Corano. Gli avvocati della donna, in concerto con la famiglia e con numerose  organizzazioni della società civile del Paese, hanno deciso di proseguire nel contenzioso legale e di ricorrere al terzo grado di giudizio, dopo che, agli inizi di luglio, una corte d'appello di Kabul aveva annullato la condanna a morte per gli uomini responsabili dell'uccisione della giovane.

 

Il tribunale ha deciso a porte chiuse, assolvendo uno degli imputati, commutando la pena capitale in venti anni di prigione per tre imputati e in dieci anni di carcere per un altro degli accusati.

 

Farkhunda è stata ribattezzata la «Asia Bibi afgana», in quanto il suo caso sembra ricalcare quello della donna cristiana condannata a morte nel vicino Pakistan. Al centro di entrambe le storie vi è una falsa accusa di blasfemia, ma a Farkhunda è andata perfino peggio rispetto ad Asia, che almeno è ancora in vita e può tuttora sperare nel rilascio: anche il suo caso si trova attualmente davanti alla Corte suprema di Lahore.

 

Farkhunda aveva avuto una discussione con un mullah che poi ha istigato la folla contro di lei. Odio e rabbia cieca si sono scatenati. La giovane è stata colpita a morte con pietre e bastoni, senza possibilità di difendersi, sebbene si dichiarasse innocente. Dopo il linciaggio, il suo corpo è stato dato alle fiamme e gettato in un fiume a Kabul, mentre gli agenti di polizia presenti non sono intervenuti.

 

«La decisione della corte d’appello di Kabul è stata accolta con molta sorpresa e delusione a Kabul. E ha immediatamente sollevato le critiche della famiglia di Farkhunda Malikzada. In particolare, il fratello Mujibullah ha contestato l’opacità della sentenza, il fatto che sia stata presa a porte chiuse, senza che la famiglia ne fosse informata», spiega a Vatican Insider Giuliano Battiston, ricercatore che, dopo una lunga permanenza nel paese e una approfondita esperienza sul campo, ha pubblicato uno studio sul risveglio della società civile afgana.

 

«Per molti esponenti della società civile afghana, la decisione dimostrerebbe la subalternità della Corte agli ulema e ai mullah, il condizionamento che i leader religiosi più conservatori, retrogradi e maschilisti, continuano a esercitare sul potere politico e giudiziario. Un potere che nella percezione comune è molto screditato, perché corrotto, forte con i deboli e debole con i forti», prosegue Battiston.

 

«La reazione della società civile afgana mostra comunque quanto sia vivace la dialettica sociale nel Paese: c’è una parte della popolazione che vuole liberarsi dal fardello del conservatorismo, che rivendica nuovi strumenti e spazi di discussione e deliberazione, anche per le donne. Ce n’è poi un’altra che, anche in reazione a tutto questo – argomenta il ricercatore – teme di perdere i propri privilegi e cerca di mantenere lo status quo».

 

La spaccatura investe anche il Parlamento e, più in generale, il panorama politico: «Lo stesso presidente Ashraf Ghani, per quanto liberale – conclude Battiston – sa che non può forzare troppo la mano nei confronti dei mullah e degli ulema. Rischierebbe di fare la fine di Amanullah Khan, il re costretto a lasciare il paese nel 1929 dopo una sollevazione popolare aizzata dai mullah, ai quali non piaceva affatto la sua agenda troppo modernizzatrice».

 

Anche il caso Farkhunda, dunque, ha assunto, proprio come quello di Asia Bibi in Pakistan, una valenza simbolica che travalica i significati di una semplice vicenda giudiziaria: vuol dire molto per lo stato di diritto e per lo stato di salute dei diritti umani in Afghanistan.

 

Soprattutto è indicativo per i diritti delle donne. I legali notano che quello di Farkhunda «si aggiunge a una lunga lista di casi che dimostrano la corruzione del sistema giudiziario agfano», soprattutto quando le protagoniste sono le donne, ricorda Kimberley Motley, avvocato internazionalista che opera in Afghanistan da sette anni e che ha seguito da vicino la vicenda, anche a livello professionale. «L'incapacità dei tribunali nel trattare il caso di Farkhunda in modo equo e trasparente rafforza l'urgenza dell’impegno per migliorare la condizione della donna in Afghanistan», rimarca Motley.

 

Quante altre Farkhunda saranno necessarie? Il caso della giovane afgana, allora, può rappresentare l'opportunità per promuovere un reale cambiamento nell’affidabilità e nella trasparenza del sistema giudiziario in Afghanistan: a questo mira la società civile. (Vatican Insider)

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