cronaca

Michele Battelli, la testimonianza.

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

In tenda con Dan Fredinburg, il manager di Google ucciso il 25 aprile dalla valanga che si è abbattuta sul campo base del Monte Everest, c’era un suo collega italiano, Michele Battelli. 
Nato ad Argenta, in provincia di Ferrara, Battelli è un ingegnere di 36 anni che si occupa dei progetti wireless dell’azienda di Mountain View e che condivideva con Fredinburg la passione per l’avventura. Insieme lavoravano alle spedizioni di Google Adventure, il servizio ideato dallo stesso Fredinburg per fotografare a 360 gradi località estreme come le cime più alte al mondo o la grande barriera corallina australiana. Erano scalatori esperti e insieme al collega tedesco Florian Nagl erano arrivati in Nepal da tre settimane per lavorare al progetto. «Sabato mattina stavamo organizzando le foto fatte il giorno prima», racconta Battelli via email al Corriere della Sera . «Erano circa le 12.15 e mi trovavo nella tenda del mio caro amico e compagno di avventure Dan Fredinburg, mentre in quella accanto c’era Florian. A un certo punto ho sentito un enorme crack nel ghiaccio sotto di noi e la tenda si è mossa di circa mezzo metro».

Battelli è uscito d’istinto, portando con sé soltanto la giacca a vento. «Una volta fuori ho sentito un rumore ancora più forte di rocce che si spaccavano, sembrava che la terra si fosse aperta in due», ricorda l’ingegnere, che ha studiato fra Ferrara e Boston ed è a Google dal 2006. «Le nuvole erano basse e non si vedevano le cime, quindi non si capiva da dove potesse provenire la valanga. Molti pensavano che fosse sul lato Everest, ma era solo l’eco: in realtà veniva dal lato del monte Pumori, proprio alle spalle del campo base». 
È stata questione di secondi, prima che sulla spedizione si abbattesse una montagna di neve, ghiaccio, detriti e rocce. «Da sotto le nuvole è apparsa la valanga più grande che abbia mai visto: il fronte sarà stato largo un chilometro. Sembrava uno tsunami di neve», continua Battelli. «Mi sono girato e ho corso nella direzione opposta, buttandomi dietro un cumulo di rocce», spiega.

«Un secondo dopo, l’onda d’urto che precede la valanga spazzava sopra le nostre teste. Respiravamo neve e ho pensato di morire seppellito. Mi è sembrato che durasse un’eternità, poi la neve si è calmata. A quel punto io e Florian ci siamo alzati scrollandocela di dosso, e abbiamo cominciato a chiamare Dan». Dall’amico, però, non è arrivata nessuna risposta. «Ho girovagato nella nuvola di neve, poi l’ho visto in lontananza, sotto una roccia», continua Battelli. «Quando l’ho raggiunto non c’era nulla che potessi fare, le ferite alla testa erano state fatali. Ho tentato un massaggio cardiaco, poi gli ho messo un sacco a pelo addosso per tenerlo al caldo. Ma non è stato sufficiente». Battelli e Nagl non hanno riportato ferite. Ieri hanno lasciato il campo base, dove «non è rimasto niente». Stanno cercando di raggiungere Kathmandu. «Ci vorrà forse una settimana prima di poter tornare a casa in California». (Corriere)

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