cronaca

Failla e Piano traditi dall’autista e uccisi nella fattoria dell’Isis

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

I quattro tecnici italiani della Bonatti rapiti lo scorso 19 luglio mentre si recavano al terminale di Mellitah sono quasi subito caduti nelle mani dell’Isis, o di forze ad esso molto vicine. Due di loro, Salvatore Failla e Fausto Piano, sono stati uccisi pare durante uno scontro a fuoco, probabilmente negli ultimi giorni. Degli altri due, Filippo Calcagno e Gino Tullicardo, al momento si sono perse le tracce. Ma tutto lascia credere che si trovino nella stessa regione, tra Sabratha e Sarman, dove sono stati recuperati i cadaveri dei loro colleghi, assieme a una decina di militanti dell’Isis, pare cinque uomini e altrettante donne, tutti di origine tunisina. Questa è la versione che emergeva ieri sera in Libia da fonti legate al governo di Tripoli e dalle autorità di Sabratha che al Corriere sostengono di avere visto i corpi dei due italiani nell’obitorio dell’ospedale locale. Diversi elementi confusi si sovrappongono, la Libia resta un Paese nel caos dove tanti sono interessati a fornire versioni di comodo. Ciò che scriviamo potrebbe essere smentito da nuovi elementi già nelle prossime ore. Il condizionale è dunque d’obbligo. Eppure, diversi fatti sembrano collimare con le testimonianze che avevamo raccolto già in Libia subito dopo il rapimento dei quattro.

Il tradimento

In primo luogo la storia dell’autista, il giovane Mohammed Yahia, che già in luglio fonti ben accreditate tra il personale Eni, e comunque impiegate a Mellitha, indicavano come «fortemente sospetto». «Noi crediamo che Yahia abbia organizzato il rapimento a scopo di riscatto e consegnato i quattro allo zio, residente nella regione di Sabratha e noto simpatizzante dei movimenti islamici radicali e persino di Isis», ci ha ripetuto ieri Hassan Eldewadi, capo del consiglio municipale di Sabratha. La sua versione non è nuova. Due giorni dopo il rapimento, ci aveva detto che a suo parere Yahia aveva creato una messa in scena facendo credere di essere stato picchiato dai criminali, quando si era fatto ricoverare per un paio di giorni in ospedale, rifiutando peraltro di incontrare i giornalisti. Poi si era dileguato. In quella fase i quattro si trovavano in una sorta di limbo. Elementi criminali connessi anche al traffico dei migranti tra le bande di scafisti locali stavano iniziando a cooperare con i primi attivisti dell’Isis. La mancanza di una stretta collaborazione tra Roma e Tripoli, alimentata dal risentimento dei politici locali per il sostegno italiano al governo rivale a Tobruk, non aveva certo facilitato le cose. «Gli italiani non lavorano con noi», ci disse allora il premier Khalifa Al Ghwell, sulla stessa linea di quanto ripeteva il portavoce, Jamal Zubia. Questi ci ha confermato tre giorni fa che la trattativa iniziata tramite i servizi italiani era poi giunta a un punto morto. «I rapitori avevano chiesto 12 milioni di euro. Gli italiani ne avevano pagata una parte. Ma l’intermediario si è dileguato con i soldi. Che io sappia negli ultimi tempi i negoziati erano fermi. Comunque l’Isis aveva ormai preso saldamente piede nella zona», dice Zubia. Fonti giornalistiche a Tripoli ci raccontano che a prendere i soldi sarebbe stato lo stesso autista Yahia, che però da tempo non aveva più alcun controllo sugli ostaggi.

Sorte precaria

La situazione precipita verso la fine del 2015: l’Isis da Sirte si allarga da una parte in direzione di Bengasi e dall’altra, verso est, sino a Bani Walid; circonda Tripoli da sud, si congiunge alle colonne dal deserto, quindi dalla Tunisia ad ovest arriva sino alla zona di Sabratha. A questo punto la sorte degli italiani si fa davvero precaria. Non è più solo una questione di soldi, il prezzo si fa politico, diventa un’ipoteca sulle scelte italiane di intervenire o meno in Libia. I fanatici del Califfato si sostituiscono ai criminali locali. A fine gennaio gli Stati Uniti decidono che è tempo di intervenire, l’Isis va fermato. Venerdì 19 febbraio gli americani bombardano un campo di addestramento del Califfato alla periferia della città, vicino al mare. Tra i 47 morti jihadisti si trovano i corpi di due diplomatici serbi rapiti nel novembre 2015 sulla stessa strada usata dagli italiani. «La sorte dei due tecnici italiani ricorda quella dei serbi. Tra l’altro in entrambi i casi nessuno sapeva che si trovassero nei luoghi delle azioni militari», dicono adesso elementi della «Rada», l’unità speciale della milizia di Tripoli (Alba Libica) che ha il compito di combattere l’Isis. Martedì 23 febbraio i miliziani del Califfato con blitz si impadroniscono del centro di Sabratha e uccidono almeno 18 poliziotti. Tripoli reagisce lo stesso giorno. «Rada» attacca in forze nel pomeriggio, e in combattimenti casa per casa che durano almeno 48 ore uccide oltre 40 jihadisti, ne ferisce e cattura più di un centinaio. Tra loro lo stesso autista «traditore» degli italiani e alcuni uomini della cellula Isis che li aveva in consegna. «Rada» pare dunque avere in mano la chiave del destino degli italiani. Ma i suoi ufficiali sono restii a parlare. La loro prigione, alcuni piccoli edifici malandati presso l’aeroporto di Mitiga, è stata attaccata dall’Isis anche lo scorso settembre.

Il racconto

Chi racconta nei dettagli è ancora Hassan Eldewadi, capo del consiglio municipale di Sabratha: «Mercoledì due marzo i combattenti di Rada hanno accerchiato la fattoria di Jfara, nella campagna che da Sabratha si apre al deserto verso sud. Sapevano che potevano trovarsi alcune cellule dell’Isis. C’è stata una forte battaglia per alcune ore. Non sappiamo quanti dei nostri siano stati colpiti. Le vittime sono ricoverate a Tripoli. Ma noi abbiamo raccolto 12 corpi, tra loro 5 jihadisti tunisini con altrettante donne. Inoltre siamo rimasti sorpresi di fronte ai corpi senza vita degli italiani. Non so se siano morti nello scontro a fuoco o siano stati freddati dai terroristi quando si sono sentiti perduti. Gli italiani sono nel nostro obitorio locale con evidenti ferite d’arma da fuoco. Penso sia stato prelevato del Dna da consegnare alle autorità italiane. Degli altri due tecnici rapiti non abbiamo traccia», ci dice Eldewadi al telefono da Sabratha. La versione del combattimento nella fattoria si confonde con quella rilanciata anche da Roma per cui gli italiani sarebbero stati colpiti durante un trasferimento in auto. Ma le due narrazioni in verità possono coesistere. Non è neppure da escludere che i jihadisti abbiano provato a fuggire con gli ostaggi durante l’attacco. Ci spiega un giornalista appena tornato da Sabratha: «La zona è assolutamente insicura. Io non andrei neppure all’ospedale. Pochi giorni fa il figlio di un commerciante locale era stato rapito a scopo di riscatto. La famiglia aveva pagato un milione di dollari. Ma non è servito, l’hanno trovato assassinato per la strada». (Lorenzo Cremonesi - Inviato Corriere della Sera)

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