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SAN FRANCESCO E SORELLA POVERTA': UN UOMO FORTE NELL'AMORE

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Francesco ha a che fare con un povero ammalato che è anche malvagio. Un uomo senza nulla nulla può essere anche mite?

Non è detto che tutte le storie che si raccontano su Francesco d’Assisi, specie quelle dei Fioretti, corrispondano a cose effettivamente accadute ed esattamente nei termini in cui vengono narrate. Anzi, è molto improbabile. In molti casi i sarà trattato magari di spunti o di voci generiche raccolte e ampliate, magari piccoli veri e propri “romanzi agiografici” tesi a dare una certa immagine del santo; in altri, ci si troverà forse dinanzi a vere e proprie invenzioni. Ma non è detto che quest’ultimo caso debba per forza venir trattato come una pura e semplice bugia, un abuso, un arbitrio. Semmai, sarebbe bello poter “decostruire” una leggenda che corrispondesse  con certezza a qualcosa di puramente inventato – e non è possibile affermare mai con certezza nulla del genere – per comprendere a quale progetto strategico, a quale immagine di santità puntava l’inventore. A volte, un racconto privo di rapporti con la realtà dell’accaduto può cogliere, nella sua sostanza intima, una verità spirituale molto più profonda di molti particolari biografici effettivi fedelmente narrati. 

Personalmente, mi ha ad esempio sempre colpito un episodio che mostra la forza e la virilità della vocazione del Povero di Assisi e il carattere pieno e profondo della sua carità. Si tratta della storia del “povero ammalato cattivo”.

Qui andrebbe aperta una parentesi di grande e speciale attività. Esiste, nella tradizione cristiana, il cliché dolciastro e ipocrita del “buon povero”: la persona sfortunata alla quale la vita ha insegnato l’umiltà, la rassegnazione, il rispetto per gli altri, la gratitudine. Uno splendido ritratto morale, molto adatto all’omiletica: è così che il povero dovrebbe essere secondo la morale cristiana, quella stessa per la quale il ricco dovrebbe essere sollecito, longanime, generoso.

Già. Peccato solo che nella realtà della vita le cose vadano altrimenti.I ricchi sono spesso insensibili, avari, superbi, indisponibili ai rapporti umani e insensibili ai richiami dei meno fortunait di loro. Verrebbe quasi da riflettere sul fatto che, se fossero fatti in modo diverso, difficilmente sarebbe diventati ricchi o avrebbero mantenuto le loro ricchezze.

Quanto ai poveri, la povertà è bella solo se è volontaria: e in qual caso diventa una specie di sport al tempo stesso fisico e spirituale. Ma la povertà involontaria, quella dalla quale è tormentata la stragrande maggioranza dei poveri, è una cosa vergognosa, infame, indecorosa: qualcosa che non si può né amare né tollerare, una condanna che non si può non ritenere ingiusta anche perché in effetto è molto spesso conseguenza di una qualche ingiustizia.

E attenzione: la povertà non è una condizione assoluta, non coincide con al mancanza dei beni. Essa  è la conseguenza di una situazione relativa, della tangibile disparità all’interno di uno stesso sistema. In una società come quelle che ancora oggi sono verificabili in tanta parte dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina, quella d’interi villaggi privi di tutto o quasi, la povertà non esiste: essa entra in gioco non appena qualcuno, in quei contesti, comincia a possedere qualcosa più degli altri. E con la povertà cominciano a insinuarsi nella società nella quale essa è presente altri mali sociali: l’invidia, la malevolenza, la violenza, la corruzione.

Fra tutte le condizioni di povertà involontaria, quella di chi non possiede la salute è una delle più terribili. L’ammalato è si direbbe strutturalmente disposto all’invidia per chiunque sia sano: anche perché la sua condizione gli appare come il frutto dell’ingiusto arbitrio di forze incontrollabili che così lo hanno ridotto.

Francesco ha a che fare con un povero ammalato che è anche malvagio: tanto da farlo sospettar posseduto. Ma perché mai uno che manca di qualunque bene di fortuna e della stessa salute dovrebbe essere mite, gentile, cordiale, magari sorridente? Però, nella pagina dei Fioretti che con la solita discrezione racconta il “miracolo” (il Povero di Assisi di solito non fa miracoli), qui siamo piuttosto dinanzi a una dura lezione etico-pedagogica che forse implicitamente sfiora la ritualità esorcistica.  Il santo si dichiara al servizio del malato, il quale – scoppiando di odio nei confronti di tutto e di tutti – immediatamente ne approfitta per umiliarlo e tormentarlo: vuole che egli si pieghi alla bisogna più umile e ributtante, il lavargli le piaghe; e, mentre Francesco lo serve, lo costringe ad assistere anche allo spettacolo delle brutture morali della sua anima, più ributtanti ancora di quelle del corpo, fino a quella che per il santo (devotissimo al Nome di Dio) è la cosa più orribile, la bestemmia.

Ed ecco che il vero miracolo non consiste nel risanamento fisico delle piaghe al contatto della mano di Francesco, bensì nell’atteggiamento fermamente umile del santo che in nessun modo si lascia irritare o distogliere dal blasfemo comportamento del suo interlocutore. Fra i due si stabilisce una specie di gara durissima e serrata, un vero e proprio braccio di ferro che confina si tuo dire con una specie d’implicito esorcismo. II vigore spirituale e la fermezza morale di Francesco  finiscono con l’aver ragione del bestemmiatore e col piegarlo fino alla conversione. Una pagina dura, drammatica, a modo suo perfino brutale, che non ha nulla dell’ingenua e serena chiarità che di solito si attribuisce ai Fioretti. E che invece non c’è in quanto quella raccolta di  “fatti” e “detti” del Povero di Assisi è, di fatto, qualcosa di duro e di rigoroso. Che peraltro finisce con il coincidere, come sovente accade nella spiritualità francescana, con una massima cara alla cultura cortese. “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”. E’ la forza dell’amore, che non ha nulla di dolciastro e di melenso. Omnia vincit Amor, perché è più forte. E nulla è più lontano dal cristianesimo della debolezza: in qualunque circostanza, in qualunque contesto.

  Franco Cardini

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