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Papa Francesco ai religiosi: 'No alla rassegnazione, non siamo funzionari'

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Papa Francesco, nel penultimo giorno della sua visita in Messico, è a Morelia, capoluogo dello stato di Michoacán.

Di fronte alla violenza, alla corruzione, al traffico di droghe e al disprezzo per la dignità della persona, i preti, i religiosi e le religiose sono tentati di considerare questo «sistema inamovibile» e di cadere in una delle «armi preferite dal demonio», la rassegnazione. Una rassegnazione che non solo «ci spaventa, ma che ci trincera nelle nostre sacrestie», ci «impedisce di rischiare e di trasformare le cose». 

Papa Francesco, nel penultimo giorno della sua visita in Messico, è a Morelia, capoluogo dello stato di Michoacán. Celebra una messa allo stadio per i sacerdoti, le religiose, i religiosi e i seminaristi che sono venuti da tutto il Paese. In questa terra la violenza e l’insicurezza sono aumentate in modo esponenziale, a motivo della forte presenza di trafficanti di armi e di droga. Con i suoi 274 chilometri di costa nel Pacifico, lo stato di Michoacán è diventato un porto importante per il trasporto di droga verso gli Usa. L’arcivescovo di Morelia, il settantasettenne Alberto Suarez Inda, nominato cardinale da Papa Francesco al concistoro del 2015, riconosce che una parte dei problemi sono dovuti «al discredito generale dell’autorità, che è in crisi. E anche a una mancanza di coerenza di vita tra gli stessi uomini di Chiesa», oltre che alla «complicità, tolleranza, passività e connivenza» di molti governanti messicani con le ingiustizie e con il crimine. 

All’inizio della messa Francesco ha chiesto di pregare per Carlo Quintero Arce, vescovo emerito di Hermosillo, nello stato di Sonora, morto la notte scorsa all’età di 96 anni, il più anziano dei vescovi del Messico. 

Gesù, ha detto il Papa nell’omelia, «ci ha invitato a partecipare alla Sua vita, alla vita divina: guai a noi se non la condividiamo, guai a noi se non siamo testimoni di quello che abbiamo visto e udito, guai a noi. Non siamo né vogliamo essere dei funzionari del divino, non siamo né desideriamo mai essere impiegati di Dio, perché siamo invitati a partecipare alla sua vita, siamo invitati a introdurci nel suo cuore, un cuore che prega e vive dicendo: Padre nostro». 

«San Paolo - ha detto il Papa improvvisando - , al suo discepolo prediletto Timoteo, quando gli insegnava o lo esortava a vivere la fede, gli diceva: Ricordati di tua madre e di tua nonna... E i seminaristi, quando entrano in seminario, molte volte mi chiedono: ‘Ma padre, io vorrei avere un’orazione più profonda, più mentale’. Guarda, continua pregando come ti hanno insegnato a casa, e poi, poco a poco, la tua preghiera crescerà, così come la tua vita è cresciuta. A pregare si impara. Come nella vita». 

A questo Padre nostro, ha continuato Francesco, «noi ci rivolgiamo tutti i giorni pregando: non lasciarci cadere in tentazione». E la tentazione che può sorgere «da ambienti dominati molte volte dalla violenza, dalla corruzione, dal traffico di droghe, dal disprezzo per la dignità della persona, dall’indifferenza davanti alla sofferenza e alla precarietà», una realtà che «sembra essere diventato un sistema inamovibile» è riassumibile nella parola «rassegnazione». 

«Di fronte a questa realtà - ha aggiunto Bergoglio - ci può vincere una delle armi preferite del demonio: la rassegnazione. Una rassegnazione che ci paralizza e ci impedisce non solo di camminare, ma anche di fare la strada; una rassegnazione che non soltanto ci spaventa, ma che ci trincera nelle nostre “sacrestie” e apparenti sicurezze; una rassegnazione che non soltanto ci impedisce di annunciare, ma che ci impedisce di lodare. Una rassegnazione che non solo ci impedisce di progettare, ma che ci impedisce di rischiare e di trasformare le cose». 

Per resistere la rassegnazione, il Papa invita alla memoria: «Non tutto ha avuto inizio con noi, non tutto terminerà con noi; per questo, quanto bene ci fa recuperare la storia che ci ha portato fin qui». Per ricordare ad esempio il primo vescovo di Michoacán, Vasco Vásquez de Quiroga, che visse nel Cinquecento. «Desidero fare memoria di questo evangelizzatore, conosciuto anche come “Tata Vasco”, come “lo spagnolo che si fece indio”». 

«La realtà vissuta dagli indios Purhépechas - ha ricordato Francesco - descritta da lui come “venduti, vessati e vagabondi per i mercati a raccogliere i rifiuti gettati a terra”, lungi dal condurlo alla tentazione dell’accidia e della rassegnazione, mosse la sua fede, mosse la sua vita, mosse la sua compassione e lo stimolò a realizzare diverse iniziative che fossero di “respiro” di fronte a tale realtà tanto paralizzante e ingiusta. Il dolore della sofferenza dei suoi fratelli divenne preghiera e la preghiera si fece risposta concreta. Questo gli guadagnò tra gli indios il nome di “Tata Vasco”, che in lingua purépechas significa: papà». Un modello per vincere la tentazione della rassegnazione di fronte ai problemi dell’oggi. Vatican Insider

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