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Ogm, le mucche non mangiano più erba

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Quella contro gli organismi geneticamente modificati (Ogm) è una nuova “caccia alle streghe”, combattuta in nome di ideali antiscientifici che finiscono con il penalizzare gli imprenditori agroalimentari italiani, costretti a competere sui mercati internazionali con aziende che gli ogm li utilizzano regolarmente e, oltre al danno la beffa, li smerciano pure nel nostro Paese. E’ questo in estrema (e brutale) sintesi, il punto di vista di Elena Cattaneo, scienziata e senatrice a vita, che dalla prima pagina del Sole 24 Ore di oggi punta il dito contro una norma inserita nel “Dl Competitività”, in discussione in questi giorni al Senato, che arriva a prevedere fino a tre anni di carcere per chi viola il regolamento europeo del 2002 che tutela i consumatori. La senatrice richiama la Costituzione che garantisce la libertà di impresa e contesta la mancanza di evidenze scientifiche a dimostrazione della tesi secondo cui gli ogm fanno male o sono potenzialmente pericolosi.

Il dibattito su questo tema si trascina da tempo e non entreremo qui nel merito del braccio di ferro tra favorevoli e contrari. Quello che colpisce è però uno dei punti da cui la senatrice Cattaneo parte per elaborare la propria tesi. “Gli accademici specialisti e gli agricoltori – scrive – mi informano che gli ogm sono il pilastro principale su cui si regge la mangimistica non solo italiana, ma dell’intera comunità europea”. E ancora: “Una mucca mangia ogni giorno circa due chilogrammi di soia ogm e così nascono i prodotti più buoni e più invidiati del made in Italy, esportato nel mondo”.

Dare per assodato che un bovino, animale erbivoro,  debba essere nutrito con mangimi e perdipiù ogm, è un modo per rivendicare i progressi della scienza che hanno consentito agli allevatori di poter fare a meno dell’erba e dei campi, al punto che molti degli animali da carne nascono e crescono in capannoni di cemento senza praticamente mai vedere la luce del giorno e senza mai calpestare un vero prato. Ed è al tempo stesso la certificazione del superamento della natura e dei suoi cicli in nome del progresso e dell’economia.

Sempre restando fuori dal dibattito su ogm sì e ogm no, la questione potrebbe allora essere vista da un altro punto di vista e partendo da considerazioni che hanno a che fare con il nostro attuale stile di vita e con le relative scelte alimentari. Come la possiamo pensare in un blog che si chiama “Veggo anch’io” è abbastanza scontato. Ma pur senza entrare nel merito delle scelte etiche individualiche portano (oppure no) ad abbracciare una filosofia veg, è davvero necessario consumare tanta carne quanta se ne consuma oggi nelle società ricche dell’Occidente? Ogni considerazione deve necessariamente partire da qui.

Il tema della resa e della redditività delle coltivazioni e degli allvamenti, infatti, si riduce ad un solo obiettivo: riuscire a produrre a costi sempre inferiori quei mangimi  diventati surrogato dell’erba e del fieno e gli additivi e gli integratori che si trovano nella gran parte dei prodotti alimentari che subiscono trasformazioni industriali. Gli ogm non sono nati per garantire maggiori derrate alimentari per i Paesi poveri o in via di sviluppo, il che avrebbe quanto meno una giustificazione umanitaria tale da far superare ogni remora e ogni cautela, bensì per abbassare i costi della produzione alimentare.

I prodotti d’eccellenza del made in Italy, che affondano le loro radici in tradizioni secolari se non millenarie, sono nati dalla terra e dal territorio. Salumi e formaggi, ma anche olii o vini, a cui con orgoglio attribuiamo l’etichetta doc o dopsono quello che sono e hanno le specificità che hanno perché sono nati in determinate aree geografiche, ricavati da materie prime che hanno potuto trarre i benefici dalla ricchezza di un certo terreno, dalle caratteristiche climatiche di uno specifico luogo, dai metodi di coltivazione, di allevamento o di lavorazione che si sono tramandati per generazioni. L’industria e la tradizione, la quantità e la qualità non vanno mai troppo d’accordo. Si basano su logiche diverse, hanno finalità differenti, richiedono procedure e tempistiche in contrasto tra loro.

Gli ogm nascono per provare a piegare la natura alle logiche della produzione industriale. Servono grandi quantità di materia prima a basso costo per produrre tutto il mangime che serve per alimentare capi di bestiame allevati in modo estensivo. Che sono allevati in questo modo perché poi si tradurranno in tagli di carne o affettati che la grande distribuzione dovrà garantire in sovabbondanza al prezzo più basso e più concorrenziale possibile  o nell’hamburger a un euro dei fast food che dovrà essere sufficiente per ripagare non solo la materia prima, ma anche  il trasporto, i costi del locale e la retribuzione (sempre più bassa) delle persone che ci lavorano.

In questo contesto  diventa allora  “naturale” partire dall’assunto che “una mucca mangia ogni giorno due chilogrammi di soia ogm”. Di una cosa però possiamo stare certi: quando l’industria che reclama il diritto di coltivare prodotti ogm per aumentare le rese e di utilizzarli per l’alimentazione dei propri animali per abbassare i costi si troverà a dover fare pubblicità ai propri hamburger, ai propri polli, ai propri salumi o alle proprie uova l’immagine che utilizzerà sarà quella di mucche felici al pascolo o di polli becchettanti in un campo. Insomma, l’immagine di allevamenti di una volta, di quando le mucche mangiavano erba e gli ogm semplicemente non c’erano.  Non c’è un solo spot tv che accenda i riflettori all’interno di un allevamento “moderno”.  Gli animali ammassati in un capannone che si nutrono solo di mangimi sono una realtà tanto quanto lo sono gli ogm. Ma, guarda un po’, non fanno vendere.

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