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L'Italia francescana nei primi anni dell'unità nazionale

Antonio Tarallo Redazione San Francesco
Pubblicato il 17-03-2021

Un filo rosso che passa anche per il linguaggio

Re Vittorio Emanuele II assume il titolo di Re d'Italia con la legge n. 4671. Era il 17 marzo 1861. Centosessanta anni fa nasceva il Regno d’Italia. Gli stati di un’Italia divisa si univano sotto un’unica bandiera: il tricolore. La cosiddetta “questione romana”  - invece -  fu chiusa definitivamente con il riconoscimento dello Stato della Città del Vaticano grazie ai Patti lateranensi siglati l’11 febbraio 1929. Parliamo, dunque, di ben sessantotto anni dopo. Importante citare tale dato per comprendere lo sviluppo - dopo l’unione del nuovo stato italiano - del rapporto Stato-Chiesa. In questo frangente storico, quello del ‘29, si inserisce una definizione che papa Pio XI diede al giovane stato italiano che paragonò - per ampiezza - al corpo del Santo d’Assisi: “Pare di vedere le cose al punto in cui erano in san Francesco benedetto: quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l’anima”. Papa Ratti parlava dell’anima dell’Italia. Il paragone con San Francesco, era inevitabile. E fu sempre Pio XI a citare il santo Poverello - in occasione del settimo centenario della morte (1226) - per parlare dell’amor di patria: “Altri ne esaltano l’amor di patria, perché a lui deve l’Italia nostra, che vanta il fortunato onore d’avergli dati i natali, una fonte di benefizi più copiosa che qualsiasi altro paese”. 

Piccola regressione veloce. Ritorniamo allo Stato Vaticano, al suo legame con il santo di Assisi. L’ultimo Papa a visitare la città umbra, prima del lungo e volontario “esilio” in Vaticano seguito all’annessione di Roma al Regno d’Italia, è Pio IX - papa Mastai Ferretti - che il 7 maggio 1857 pernotta al Sacro Convento e la mattina successiva celebra la Messa nella chiesa inferiore, sull’altare del santo.  E’ questo episodio l’espressione della vicinanza della Santa Sede con Assisi, con il santo Poverello. Passeranno, poi, ben  105 anni prima che un altro papa vada in pellegrinaggio ad Assisi. Accade  il 4 ottobre del 1962 quando, alla vigilia del Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII si recherà alla tomba di san Francesco. 

Ed è proprio alla tomba che troviamo, forse, il segno più evidente dell’unità spirituale e “geografica” tra l’Italia e il santo di Assisi: in questo sacro luogo si trova, infatti, la cosiddetta “lampada votiva di san Francesco”,  alimentata dall’olio che i comuni d’Italia offrono annualmente alla città umbra. Ogni anno, una regione diversa, offre questo “sacro fuoco” al santo Poverello. La prima volta fu accesa il 4 ottobre 1939 quando Pio XII proclamò Francesco d’Assisi patrono d’Italia. I comuni della nazione offrirono al Patrono l’artistica lampada affidando all’architetto Ugo Tarchi il compito di disegnarla. Nel settembre 1937, Tarchi inviò al Padre generale dei frati conventuali il disegno della lampada, con una dettagliata descrizione: “La lampada votiva, di m 1,20 di altezza, è tutta in bronzo lucido ed argento. L’asse centrale, forgiato a croce, s’innalza dal centro della tazza che, nella sua forma semisferica, simboleggia il mondo. In alto, la turrita corona d’Italia reca, nei quattro scudetti, lo stemma di Casa Savoia, il fascio littorio, la lupa romana e lo stemma della città di Assisi. Sull’orlo della coppa staccano contro il fondo luminoso dell’alabastro le parole del verso dantesco: ‘Altro non è che di suo lume un raggio’ (Par. XXVI, 33). Al di sotto della coppa la frase dedicatoria: ‘I Comuni d’Italia al Santo’. Al di sopra della tazza, tre colombe d’argento sostengono col becco una corona di ulivo, sovrano e universale simbolo di pace”.

Ma il filo rosso - non proprio “sottile” - tra san Francesco e l’Italia passa anche per il linguaggio. O meglio,  per la lingua. “Altissimu, onnipotente bon Signore,/ Tue so’ le laude, la gloria et l’honore et omne benedictione./ Ad Te solo, Altissimo, se konfano,/ et nullu homo ène dignu te mentovare”.  E’ l’incipit del famoso “Cantico delle Creature”. Con queste parole del santo si dava inizio alla tradizione letteraria italiana. L’inno al Signore  è scritto da Francesco in volgare umbro, che però presenta - oltre a latinismi - anche influssi toscani e francesismi. È un primo abbozzo di lingua italiana: è possibile definirlo così. Almeno sette secoli prima dell’Unità, in questo “inno” possiamo trovare l’espressione di un  registro linguistico comune. Il filosofo russo Solov’ëv annotava che   “ sulle labbra di san Francesco, la neonata lingua italiana esprime già sentimenti e idee di portata universale”. E se avviene ciò lo dobbiamo all’universale linguaggio della poesia, della bellezza. E dell’amore. Nel caso di Francesco un amore che si fa strumento di Dio. In questo caso, espresso in una neonata lingua. Quella italiana. O comunque vicino a quella che sarà la lingua del nostro paese. Dovremo aspettare un po’ affinché maturi poi del tutto. Ma questa è altra storia. 

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