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Gennaro Maresca, dal teatro a Gomorra: ho scelto il palcoscenico per le emozioni che riserva

Redazione
Pubblicato il 14-06-2019

Intervista a Gennaro Maresca, che in 'Gomorra' interpreta il magistrato Walter Ruggieri

Chi va a intervistare un protagonista di una serie TV di successo non rinuncia allo sfacciato tentativo di estrapolare più informazioni possibili su quel che la prossima stagione offrirà. L’attore in questione è Gennaro Maresca che, nel capitolo quattro di Gomorra, veste i panni del magistrato Walter Ruggieri. Nella fortunata serie ideata da Roberto Saviano, Ruggieri è l’impavido che tenta di annientare il potere di Genny Savastano. Da Gennaro, però, nulla di nuovo trapela sulle future imprese del personaggio che interpreta (come in fondo è giusto che sia), poiché dall’immagine rimbalzata a mezzo social social, di Saviano in procinto di intraprendere le scritture di Gomorra 5, nulla è ancora cambiato: «Tutto è assolutamente in lavorazione, lasciamo partire la macchina e lo scoprirete». Prima, durante e dopo Gomorra, Gennaro Maresca ha continuato a calcare il palcoscenico teatrale, portando avanti con determinazione una missione iniziata tanti anni fa. 


Per alcuni il passaggio dal teatro al piccolo schermo non è mai semplice. 

«Nel mio caso da un lato è stato traumatico, dall’altro stimolante. Inutile dire che il tentativo di avere un ruolo sul grande e sul piccolo schermo non sia l’obiettivo di un attore. Il teatro è un luogo difficile in cui vivere, bisogna avere una grande lucidità e tanta voglia di farlo come mestiere, perché è l’esperienza più bella del mondo». 

Quanto calza su di te la definizione di attore di teatro impegnato?

«Non saprei dire quanto, nel senso che il teatro è impegnato nella misura in cui vuoi dire qualcosa con convinzione. Puoi abbracciare in maniera impegnata ogni messaggio che intendi trasferire attraverso la recitazione. Mi piace fare ricerca, sia con i ragazzi del mio laboratorio che su me stesso, ogni volta che devo affrontare un ruolo: da Shakespeare con Laura Angiulli a Galleria Toledo ai testi assolutamente contemporanei, come quello che farò a breve per il Napoli Teatro Festival. La varietà è la ricerca».

Parlaci del tuo laboratorio. 

«Mi muovo nei laboratori teatrali da un bel po’ di anni perché – e lo dico con estrema convinzione, e con senso di sostegno per tutta la rete di attori che mettono su laboratori – è il miglior modo in cui si può fare ricerca guadagnandoci qualcosa, là dove il mondo del lavoro diventa difficile. Da ragazzino ho attivato un mio laboratorio. Successivamente la voce è arrivata a Mario Gelardi, direttore artistico del Nuovo Teatro Sanità di Napoli. Ho iniziato a recitare con lui, e mi ha proposto di curare dei laboratori. Nello specifico curo un laboratorio che vede il coinvolgimento di ragazzi dai 17 ai 30 anni. Scopriamo così il mondo del teatro in maniera teorica, cercando di affrontarlo il maniera pratica, proponendo sempre cose nuove e stimolanti». 

Mettere su un polo culturale, all’interno di un quartiere considerato a rischio, è sempre un’alternativa valida. 

«Il lavoro di educatore teatrale mi ha permesso di lavorare in alcune scuole di secondo grado. In alcuni quartieri esiste una realtà che soffre di punti nevralgici, che spingono i ragazzi e le loro famiglie ad avere poca voglia di guardare al futuro. Bisogna impegnarsi e portare il teatro ovunque – dai rioni cosiddetti difficili alle zone borghesi – è necessario farlo per creare delle connessioni. I ragazzi del territorio su cui lavoriamo hanno potenzialità immani a livello artistico e comunicativo. Hanno talento, ma purtroppo non sanno di averlo. Il nostro sforzo è quello di permettere loro di individuarlo, di valorizzarlo e sfruttarlo. La cultura, nello specifico umanistica, può essere una salvezza per acquisire lucidità, vedere il mondo con occhi diversi, e relazionarsi all’altro con più apertura».

Avrai un episodio che ti ha toccato dentro, dandoti ulteriore spinta ad andare avanti.

«Uno? Tanti! Ho tenuto dei laboratori in diverse zone della provincia di Napoli, e ogni anno accademico mi ha lasciato in dono delle emozioni. Ho avuto, nei primissimi anni in cui curavo dei laboratori, un allievo diversamente abile. Assistere ai suoi progressi mi ha riempito il cuore di gioia. Ho operato all’interno di una comunità di recupero, in cui ragazzi, attraverso l’arte del teatro, si sono sentiti orgogliosi di aver creato qualcosa di bello. Nella realtà del laboratorio teatrale ci si contamina reciprocamente di energie positive. Questo continuo scambio mi fa credere che il mio sia il lavoro più bello del mondo».

Sono passati 19 anni dall’avvento dei reality, sui quali non sembra soffiare alcun vento di crisi. Anche i ragazzi che preferiscono il palcoscenico alla telecamera ambiscono al successo immediato? 

«I ragazzi sono continuamente in contatto con i reality e le loro  dinamiche; sono ammalati di velocità, ingabbiati nei social e nell’era digitale che li sovrasta. In loro si è innescata la logica dal tele-voto, dei like, delle visualizzazioni e dei follower.  Nel momento in cui si raffrontano con il teatro avviene in loro un’assoluta trasformazione; ne comprendono l’arte artigianale, che richiede un continuo impegno, un costante studio, e una fortissima determinazione. Entrano così in un’altra dimensione. Rinunciare ai reality vuoi dire spogliarsi dell’immondizia sociale che ci denota. Però, devo ammetterlo: qualche anno fa ho fatto il provino per partecipare a un reality». 

E com’è andata? 

«Male. Avevo 17 anni. Frequentavo un corso di teatro, e il mio insegnante mi fece scoprire Ibsen. Recitai un suo pezzo, ma non riuscii a superare la selezione. Anche io, se pur di una generazione diversa, sono stato tentato e coinvolto in questa trasformazione della società che ha cambiato gli usi e i costumi».

Poi però in televisione ci sei finito grazie a Walter Ruggieri. Cos’è che ancora non abbiamo capito di lui? 

«É un personaggio in contrasto tra sentimenti positivi e negativi, che possono trasparire ma anche non trasparire. Abbiamo voluto renderlo “eroe” dal punto di vista umano. Non occorre scomodare i grandi nomi, perché il tentativo sarebbe imparagonabile, ma abbiamo molti esempi di figure importanti alle quali la figura di Walter Ruggieri è stata ispirata. Anche loro erano persone, con i loro problemi, le loro mancanze, le loro cattiverie, i loro slanci di positività, e quella dose di lucidità umana che li incoraggia a continuare a onorare il mestiere che più amano, come fosse un sorta di missione».  

Un po’ come fai tu con il teatro? 

«Assolutamente, non avrei potuto fare altro nella vita. Oltretutto, mi piace ribadirlo ancora una volta: lo considero il mestiere più bello e appassionate del mondo, sopratutto per tutte le esperienze che riservano sempre emozioni speciali e indimenticabili». 


Domenico Marcella 

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