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Daniela Trapasso: I calabresi conoscono il fenomeno dell'emigrazione, ecco perché Badolato ha aperto il cuore ai migranti

Redazione
Pubblicato il 06-06-2019

Intervista a Daniela Trapasso sull'esperienza calabrese dell'accoglienza dei migranti


Davanti alla Polizia si spacciò per colei che doveva consegnare un po’ di abiti puliti ai migranti. Da quel giorno, Daniela Trapasso non si è più allontanata dal centro di accoglienza. Siamo a Badolato, borgo bizantino in provincia di Catanzaro, salito agli albori della cronaca negli anni Ottanta, quando il giornalista Domenico Lanciano lo mise provocatoriamente in vendita in un articolo, a causa del drammatico spopolamento.

Nel 1997, però, all’indomani dello sbarco della nave turca Ararat, qualcosa è cambiato. Badolato è divenuta una virtuosa culla di approdo e di integrazione. Questa instancabile donna di Calabria oggi è assessore alle Politiche sociali e all’Istruzione nel suo borgo di residenza; all’epoca era soltanto una ragazza che aveva scelto di rimboccarsi le maniche per offrire il suo contributo alla nobile causa umanitaria. Sfruttando l’ottima conoscenza dell’inglese, mettendola a disposizione della Questura per le operazioni di identificazione, Daniela ha iniziato a vivere a stretto contatto con la realtà dei migranti. Responsabile regionale per il Consiglio Italiano per i Rifugiati (dal 1998 al 2010) – oltre a gestire il progetto di accoglienza per il Comune di Badolato – Daniela Trapasso ha vissuto varie operazioni di sbarco al porto di Gioia Tauro, seguendo la nascita del centro di accoglienza Sant’Anna di Crotone.

Daniela, cosa ricorda dello sbarco dell’Ararat?

«Ricordo tanto di quel momento. Era il 26 dicembre 1997; una sera fredda e buia, una strada illuminata dalle auto della Polizia, e una grande nave a riva dalla quale provenivano richieste di aiuto. E poi un correre e vociare in lingue incomprensibili».

Qual è stata la reazione della popolazione di Badolato, davanti l’arrivo dei 900 profughi kurdi?

«I badolatesi avevano già vissuto un’esperienza simile nell’agosto 1997, quando una carretta del mare si arenò sulla battigia del nostro mare con un carico di circa 470 disperati. Già in quella occasione l’amministrazione comunale – guidata dal sindaco Gerardo Mannello – e l’intera popolazione si erano prodigate nel dare accoglienza alle persone sbarcate. C’erano tante donne e bambini, e i badolatesi si strinsero intorno ai profughi offrendo quello che avevano: vestiti, tovaglie, cibo, giochi per i bambini e – soprattutto – tanto calore umano e solidarietà. In quell’occasione, l’ospitalità durò pochi giorni poiché non era entrato ancora in vigore il Trattato di Dublino (operativo dal settembre 1997); tutti ebbero così un foglio di via, e l’invito a lasciare l’Italia. In realtà era quello che volevano: raggiungere parenti e amici nel nord Europa. Quell’esperienza, però, entrò nel cuore dei badolatesi segnandoli moltissimo. Così la notte in cui arrivò l’Ararat tutti erano pronti a dare una mano».

Il calabrese non ha mai dimenticato di essere figlio di un popolo emigrante.

«No, e non credo lo dimenticherà mai. È stata questa la molla che ha portato i badolatesi ad aprire il loro cuore ai migranti. I calabresi sanno benissimo cosa significhi essere costretti a lasciare la propria terra, i propri affetti. Abbiamo poi spiegato che le persone giunte sulle nostre coste non avevano scelto di partire, ma stavano semplicemente scappando dai loro Paesi per mettersi in salvo dalle torture, poiché private delle più ovvie libertà».

Chi non assiste a uno sbarco può soltanto immaginare, ma non capire fino in fondo. Che esperienza è?

«Un’esperienza inspiegabile, forte. È vero quel che dice: se non si assiste a uno sbarco non lo si può minimamente immaginare. È qualcosa che tocca dentro, che permette di conoscere da vicino il dolore e la miseria umana. Vedere donne, uomini, bambini e anziani scendere da quelle navi è una pugnalata al cuore. Vedere i loro occhi stanchi e spaventati, le labbra secche per la sete, le gambe che si piegano, e poi sentire i bambini piangere… Non si può spiegare. Mi fa male soltanto a ripensarci. Credo che chiunque stia seduto su una poltrona al posto di comando dovrebbe vedere certe cose prima di stabilire cosa sia giusto per Legge».

Sembra che ormai per salvare una vita e «Restare umani» bisogna intraprendere azioni apparentemente irragionevoli.

«Mi auguro non sia così. Bisogna compiere azioni umane. Credo sia normale avere sentimenti di compassione, di pietas. Basterebbe soltanto pensare che al posto loro ci potremmo essere noi o un nostro caro».

Pensiero ricorrente dalle sue parti; lo dimostra il fatto che – nel corso degli anni – Badolato non ha mai chiuso le porte, il cuore gli occhi.

«Mai. Badolato non ha mai vissuto con fastidio la costante presenza dei rifugiati. Sono ormai 22 anni che accogliamo ininterrottamente. E le emozioni sono sempre immense, va detto».

I migranti sono un valore aggiunto per le comunità che li accolgono. Com’è cambiata Badolato?

«Il cambiamento più grande è stato quello nelle coscienze e delle conoscenze. Il mondo ci è arrivato a casa, e abbiamo avuto la possibilità di conoscere luoghi lontani, culture diverse – ma non troppo – dalla nostra. Tutto questo ha suscitato molta curiosità. Da quel lontano 1997, affascinati dal fermento multietnico che si respira, moltissimi turisti, italiani e non, hanno scelto di acquistare casa a Badolato, e di trascorrervi del tempo. A oggi possiamo dire che il nostro borgo sia la meta privilegiata da chi vuole praticare un tipo di turismo “slow”, fatto di cordialità, contatto con la natura e con l’arte».

Si parla molto di modelli. Badolato è un modello vincente, a cui molti si sono liberamente ispirati.

«Sembrerebbe di sì. In realtà a me non piace parlare di modelli, quelli li lascerei alla moda. Badolato ha proposto un tipo di accoglienza nuovo già nel 1997; un’accoglienza non fatta di “stanzoni affollati”, ma di case abbandonate messe a disposizione dei rifugiati e delle loro famiglie. Un supporto importante, un punto da cui ripartire per vivere un vita nuova, lontana dalle angherie che costringono a fuggire. Tutto accadeva in tempi non sospetti: non c’erano progetti da cui attingere a fondi, non c’era nessuna politica di accoglienza strutturata. Avevamo soltanto tanta buona volontà e – inutile nasconderlo – anche il desiderio di ridare vita a un borgo che rischiava di spegnersi completamente. La scelta è stata vincente. Infatti, dopo di noi moltissimi Comuni iniziarono a sperimentare questo tipo di accoglienza: il progetto “pilota” di Badolato aveva sortito i suoi effetti. Anche a livello di Governo centrale si cominciò a parlare di “accoglienza diffusa”; nel 2001 – da un accordo tra l’Anci, l’Unhcr ed il Ministero dell’Interno – è nato il Programma Nazionale Asilo (PNA) fondamentalmente basato sull’esperienza di accoglienza badolatese e, nel 2002, con la legge Bossi-Fini, questo primo esperimento viene definitivamente istituzionalizzato con il nome di Sprar (Sistema di Accoglienza Per Richiedenti Asilo e Rifugiati). A oggi sono circa 148 i comuni calabresi titolari di un progetto Sprar. Credo sia bella vittoria».

L’immagine della bambina in lacrime, al confine tra Stati Uniti e Messico – scatto che si è aggiudicato il World Press Photo 2019 – incarna lo spirito di questo assurdo momento storico. Perché davanti al pianto disperato di una bambina il senso di umanità non prende il sopravvento?

«Proprio perché è “soltanto” il pianto di una bambina, che non può vendere o comprare petrolio o gas; che non è indispensabile per l’economia mondiale e per i giochi geopolitici. Ecco perché».

Daniela, lei che ha visto l’inizio di questo fenomeno, cosa si auspica per il futuro?

«Mi auspico che davvero ognuno possa tornare “a casa loro”, ma soltanto dopo che noi avremo lasciato “casa loro” veramente a loro. Ognuno vorrebbe stare nel proprio Paese, ma spesso le condizioni non glielo permettono, e il più delle volte queste condizioni le abbiamo create noi».

A fronte della sua esperienza, il meglio potrebbe arrivare?

«Dipende da cosa intende per meglio. Se me lo chiede con un sottofondo di sarcasmo le dico che, purtroppo, ancora non abbiamo visto niente. Se lo intende come un augurio, non posso che augurarmelo anche io».

Domenico Marcella

Twitter: twitter.com/dodoclock

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