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C’era una volta il Monte Athos: sacralità e silenzio sconfitti da app e antenne

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Hanno sentito tutti Papa Francesco dire: «Sono certo che capita anche a voi, che il cellulare in alcuni posti non prenda... Bene, ricordate che se nella vostra vita non c’è Gesù è come se non ci fosse campo! Non si riesce a parlare e ci si rinchiude in se stessi. Mettiamoci sempre dove si prende!». Le frequenze radio elettromagnetiche come i raggi dello Spirito Santo: «Manda a noi dal cielo un raggio della tua luce», faceva una vecchia preghiera. Il campo del cellulare è solo una metafora, ma una metafora potente perché il nostro immaginario, impoverito dal perduto legame con la natura, si rivolge sempre più spesso al catalogo tecnologico. Il problema è che, come hanno detto in molti nel Novecento, la tecnologia non è solo un oggetto ma anche l’«imposizione» di una visione del mondo: sarà compatibile con quella millenaria della fede?



Iason Athanasiadis, fotoreporter di prima linea, si è posto questa domanda mentre saliva sul Monte Athos e ha scritto un articolo su Al Jazeera che ha provocato un vespaio di opinioni sui social media. Si è reso conto di quanto il suo viaggio fosse diverso dal primo, compiuto insieme con il padre nel 1999, mentre la Nato bombardava Belgrado qualche centinaio di chilometri a Nord. Niente di idilliaco, monaci poco affabili, fatica e privazioni, nonostante la modernità cominciasse ad affacciarsi sui monasteri. Ma era come se dal disagio nascesse una forma di attenzione purificata.



«Un pellegrinaggio - scrive il teologo Philip Sherrard, celebre per i suoi studi sull’Ortodossia - non è soltanto la visita a un santuario, a un luogo sacro, è una deliberata resa, una separazione dalle proprie comodità, abitudini, sicurezze, consolazioni. Ci si libera, per quanto possibile, dall’artificialità in cui la società ci rinchiude». L’orologio da allora è corso a capofitto. Al porto di Ouranopolis, la città del cielo, Iason trova un turista che si fa un selfie davanti al traghetto mentre altri consultano l’app del Monte Athos (su Android) per capire dove andare, monaci frettolosi parlottano su Viber. Il fotoreporter torna con la mente al primo servizio a Beirut nel 1995, quando si aggirava tra le rovine del centro ascoltando gli Smashing Pumpkins dalle cuffie del walkman. «Con la musica - ripensa oggi - la mia percezione era più acuta ma le rovine erano strappate dal contesto, diventavano quasi affascinanti». 



Il mito del monte Athos si è sedimentato nei secoli sopra a una realtà sfuggente. Lassù, Bruce Chatwin poteva sussurrare: «Un Dio dev’esserci» e al contrario Edward Lear sbottare: «Se questo è il cristianesimo, che sia spazzato via al più presto». Baluardo della tradizione, dove il genere femminile non entra nemmeno in forma animale, il Santo Monte è stato colto alla sprovvista da cellulari e wi-fi: strumenti utili o demoniache tentazioni? Certo le cose sono cambiate da un pezzo: si vedono le prime case di mattoni e i pellegrini-turisti (320 mila lo scorso anno) salire come cavallette sui pendii degli anacoreti, lasciandosi dietro cumuli d’immondizia. 



«Al di là della spiritualità - dice Iason - ho sempre amato il luogo per l’isolamento e lo splendore naturale. Ma la globalizzazione ha convogliato masse crescenti di turisti verso il Monte, così come in altri luoghi culturalmente unici. Da un lato questo ha impedito la morte del monachesimo che solo negli Anni 70 sembrava prossimo alla fine, dall’altro ha portato a un sovraffollamento della montagna che altera l’ambiente monastico e grava sul suo fragile eco-sistema. Credo che la Chiesa ortodossa dovrebbe mettere da parte le interminabili dispute religiose e concentrasi sulla salvezza di quello che chiamano il “Frutteto della Vergine Maria”».



Il contrasto tra progresso e tradizione è un archetipo immemorabile. Nel terzo secolo prima di Cristo, il filosofo taoista Zhuang zi già raccontava la storia dell’erudito e del contadino. L’erudito magnifica la macchina a bilanciere che eviterebbe la fatica di andare ogni volta al pozzo a riempire il secchio per irrigare. Il contadino gli risponde: «Chi si serve di macchine e meccanismi finisce col meccanizzare la sua mente e acquista così un cuore di macchina. Ma chi ha cuore di macchina perde la pura semplicità. Chi perde la pura semplicità perde anche la quiete della mente».

Ma s’illuderebbe chi leggesse questa parabola in chiave troppo attuale. Come i monaci del Monte Athos, non possiamo scegliere se usare tecnologia oppure no. La tecnologia ha scelto noi, indietro non si torna. Come scriveva Ernst Jünger, oggi dobbiamo abituarci ad avere «il punto di vista di un uomo che cade dalla finestra».  (Claudio Gallo - La Stampa)

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