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Birmania, sulla libertà religiosa i vescovi cercano appoggi nel mondo

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Per raggiungere pienamente il suo potenziale il Myanmar ha bisogno della piena libertà religiosa. Altrimenti il suo futuro è in bilico. È un appello convinto e appassionato quello lanciato dall’arcivescovo della capitale Yangon, il salesiano Charles Maung Bo, dalle colonne del Washington Post. Sul prestigioso quotidiano americano, Bo squaderna agli occhi della comunità internazionale un problema che potrebbe minare irrimediabilmente il cammino di riforme avviate nell’ex Birmania. Il nodo è quello della libertà religiosa – principio che la Chiesa ritiene alla base di tutti gli altri diritti – messa in discussione da un disegno di legge che limita fortemente la possibilità di convertirsi da una religione all’altra, tracciando un percorso che per un cittadino significherebbe un vero calvario.

Il paese del sudest asiatico, dopo cinquant’anni di dittatura militare, sta gradualmente aprendosi alla democrazia e al riconoscimento dei diritti individuali e collettivi. Nel corso degli ultimi tre anni il governo del presidente Thein Sein, ex-generale che ha abbandonato l’uniforme, ha compiuto passi significativi. Molti prigionieri politici sono stati liberati, la società civile e i mass-media hanno guadagnato spazio nell’arena pubblica, la leader democratica Aung San Suu Kyi, dopo anni di arresti domiciliari, siede in Parlamento e, se vi sarà un cambio della Costituzione, potrebbe concorrere per le prossime elezioni presidenziali. La nazione, in passato isolata, ha riallacciato i legami con le potenze occidentali, come Gran Bretagna, Stati Uniti, Unione Europea. Anche i cristiani birmani (circa 3,8 milioni, l’8% della popolazione complessiva, su oltre 50 milioni di abitanti) hanno beneficiato di queste aperture.

Ma la trasformazione è ancora “in fase embrionale” e “il raggio di sole può essere oscurato da nubi di tempesta”, nota l’Arcivescovo con la sua proverbiale vena poetica. L’alba potrebbe essere fittizia. Non si può dimenticare, di punto in bianco, “la crocifissione che il Paese ha subito per cinque decenni”: “Una croce di ingiustizia che porta cinque chiodi: dittatura, guerra, sfollamento, povertà e oppressione”. Oggi, spiega Bo ai lettori americani, mandando un messaggio ai leader birmani e ai governi occidentali, ci sono “cinque nuovi chiodi”: land-grabbing, corruzione, ingiustizia economica, conflitti etnici e odio religioso.

L’ultimo, il più pericoloso, è quello identificato da Bo come “l’estremismo nazionalista buddista” che sta perseguitando le minoranze religiose. Negli ultimi due anni a farne le spese sono state le comunità musulmane in tutto il Paese: “Hanno subito violenza orribile, fomentata da discorsi di odio predicato da buddisti radicali”. Con centinaia di morti, migliaia di sfollati, case e negozi saccheggiati e bruciati, soprattutto nello stato di Rakhine (nel centro del Paese) dove i musulmani di etnia rohingya, lì residenti da generazioni, sono stati cacciati e resi apolidi. “Una catastrofe umanitaria che continua incontrastata”, denuncia il vescovo di Yangon. Senza dimenticare le minoranze religiose cristiane di etnia kachin, vittime di una autentica pulizia etnica e atroci violenze, abusi, stupri compiuti dall’esercito birmano sui civili.

In un quadro già complicato, ecco l’elemento nuovo che mette potenzialmente in crisi il cammino di rinnovamento del Paese: il disegno di legge, presentato dal governo, sulla “tutela della razza e della religione”. La normativa, che limiterebbe i matrimoni interreligiosi e le conversioni da una fede all’altra, è un attentato alla libertà religiosa, architrave di ogni altra libertà. Il progetto di legge prevede un vero e proprio “processo” per ottenere il “permesso ufficiale” di convertirsi. I funzionari governativi hanno il potere di decidere, dopo appositi interrogatori, se un richiedente abbia esercitato o meno il libero arbitrio nella scelta di cambiare fede. Quanti chiedono la conversione “con l'intento di distruggere un’altra religione” possono essere puniti con la reclusione fino a due anni. Questo, in prospettiva, significa possibili arresti arbitrari per chi decide di convertirsi dal buddismo Theravada – la fede maggioritaria in Myanmar – a un credo minoritario. Anche persuadere un individuo con una presunta “pressione indebita” comporta un anno di prigione. Per questo un forum di oltre 80 organizzazioni della società civile di tutto il mondo ha già chiesto ufficialmente al governo birmano di archiviare la proposta di legge, sostenuta invece dai gruppi radicali buddisti come il “Movimento 969”, apertamente violento e intollerante.

Il testo ufficialmente diffuso viene ora sottoposto a una sorta di referendum popolare: i cittadini birmani potranno esprimersi entro il 20 giugno, prima della discussione e del sì del Parlamento. In questo frangente la Chiesa cattolica si è unita alla campagna, interna e internazionale, per far decadere la legge liberticida. La Chiesa si aggrappa al messaggio di pace e armonia, cuore della filosofia buddista: i valori buddisti di “metta” (gentilezza amorevole) e “karuna” (compassione), fanno il paio con il musulmano “salam” (pace) e con la cristiana “caris” (amore al prossimo). Questi, auspica Bo, devono essere i pilastri della nuova Birmania.(Vatican Insider)

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