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Maalula, nel cuore cristiano devastato dalla guerra in Siria

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Sulla scalinata di pietra che conduce alla chiesa di Santa Tecla è rimasta una macchia di sangue rappreso grande quanto l’intero gradino: un soldato fedele ad Assad, o un miliziano Hezbollah, o un ribelle di Jabat al Nusra devono averci lasciato la vita. Ma non è questa l’unica traccia della battaglia per Maalula, durata mesi. La guerra s’è abbattuta su questo gioiello della cristianità, famoso perché qui vi si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù Cristo, come una piaga biblica, lasciandosi dietro una città-fantasma, costellata di macerie, da cui la gente è fuggita e dove, anche oggi che non si combatte più, stenta a ritornare.

Forse perché siamo in piena stagione elettorale, lo spiazzo in cui si lascia la macchina e inizia l’ascesa verso i luoghi santi, è tappezzato di manifesti, poster e striscioni di Bashar Al Assad. Il presidente appena rieletto, è venuto qui, il 20 aprile scorso, a riscuotere i frutti della vittoria conseguita dai soldati rimastigli fedeli con l’appoggio decisivo degli Hezbollah libanesi. Oggi è impossibile sfuggire allo stridente contrasto tra l’immagine propagandistica del Rais, che si propone come il tutore supremo delle minoranze religiose, e lo stato penoso in cui è ridotto uno dei luoghi più altamente simbolici e cari alla minoranza cristiana

Si sale verso Santa Tecla lungo un viottolo scavato tra le rovine. Di una delle case, addossata alla montagna, s’è salvata soltanto la cantina scavata nella roccia. Alcune donne stanno facendo le pulizie in una fitta penombra. Cristiani di un’epoca remota, si direbbe. È la prima volta che la famiglia Talab torna a Maalula dai primi di settembre del 2013, quando la popolazione è “sfollata” e Damasco. «Ma in queste condizioni, senza acqua né energia elettrica, penso che ce ne andremo», dice Miriam Talab, la più anziana. «Torneremo forse più in là».

Una cannonata ha sfondato il portone di Santa Tecla. La Chiesa è distrutta. L’iconostasi è stata svuotata e data alle fiamme. Scritte inneggianti all’Islam sui muri. Quadri strappati sulla scaletta del giardino che porta all’eremo. Di un San Giorgio Cavaliere che uccide il drago è rimasto soltanto il busto e parte della testa. Sul coperchio del pozzo la corona d’oro contorta di un pope, accanto ad un crocefisso bruciato. Passiamo dall’orfanotrofio che ospitava venti bambini. Per terra, libri scolastici fatti a pezzi, brandelli di materassi, disegni infantili.

Poco più in là, nella stessa ala del convento, la sala della preghiera dove si riunivano le 12 monache, guidate da suo Pelagia, che nel dicembre scorso furono prese in ostaggio, è stata data alle fiamme. Trasferite a Yabrud, le suore sono state in seguito liberate in cambio di un centinaio di prigioniere nelle carceri del regime. Dissero che erano state trattate bene. Un militare con una visibile croce di legno al petto apre il cancello che porta alla grotta dove si dice fossero sepolti i resti di Santa Tecla, la santa che il padre, un nobile seleucida del luogo, punì con la morte a causa della sua fede. I supporti di marmo che sorreggevano l’urna con le reliquie sono addossati ad una parete. Sono stati fatti a pezzi e le reliquie, si dice, scomparse.

Saliamo verso l’Hotel Safir che domina la valle di Maalula e dove si trova il convento di San Sergio e Bacco. L’albergo, per la sua posizione dominante, era il nido dei jihadisti, il loro osservatorio, la loro centrale operativa e, all’ultimo, la loro postazione d’artiglieria. Non c’è stata subito guerra a Maalula. I ribelli armati hanno prima occupato il Safir, tenendo sotto tiro la cittadina, ma senza scendere a valle. E lì sono stati per mesi grazie ad una sorta di compromesso con le forze di sicurezza in virtù del quale loro non si muovevano e l’esercito rimaneva alle porte della città, nei suoi posti di blocco. Dopo un primo tentativo, riuscito, di sloggiarli, sono tornati in forze (fra due e tremila, si dice) riconquistando la posizione e allora sì, è cominciata la battaglia in cui è intervenuta, pesantemente, l’aviazione siriana.

Dell’albergo non resta altro che la facciata panoramica ridotta ad un colabrodo. Sul retro, gli scivoli e le altalene approntati per i figli degli ospiti guardano un edificio completamente in rovina. A qualche decina di metri le antiche mura del convento di San Sergio e Bacco appaiono gravemente lesionate. La cupola della cappella, risalente al IV secolo, è crollata all’interno lasciando uno squarcio sul tetto attraverso cui penetra, feroce, il sole. Non resta più nessun ornamento religioso. Quattro icone del XVI e XII Secolo, tra cui una rarissima “Ultima cena” sono sparite. Wahil Mikael, il comandante della milizia cristiana di Maalula, che adesso presidia le strade deserte della cittadina, assicura che sono stati i ribelli a saccheggiare la Chiesa. Ma questa è la storia raccontata dai vincitori. ALBERTO STABILE - Repubblica

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