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Peres: Con Francesco un patto di pace fra tutte le religioni

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Cravatta celeste, cura dei vocaboli, citazioni di Ben Gurion e drappi vaticani nella residenza: così Shimon Peres si appresta ad accogliere Papa Francesco, riconoscendogli il merito di «rappresentare lo spirito della nostra epoca». A due settimane dal termine del settennato di presidenza d’Israele, il 90enne leader laburista sfrutta questa intervista per recapitare messaggi a Europa, Iran e palestinesi ma anche per anticipare cosa ha in mente per la vita da privato cittadino: «Far sentire la mia voce».

Quale ruolo hanno il Pontefice e la Chiesa in Medio Oriente?
«Il Papa rappresenta lo spirito della nostra epoca, con la modestia supera divisioni e incomprensioni. La nuova era di Francesco si esprime in più ambiti, quello spirituale ma anche nell’economia globale, dove conta più la buona volontà che la forza. C’è un incontro fra globalità delle azioni e dello spirito, si può tenere la propria identità e permettere a una persona di essere differente. Non credo che qui avremo la pace solo perché arriva il Papa ma ritengo che la sua presenza potrà dare un grande contributo perché tutti lo rispettano, ebrei, cristiani, musulmani, drusi. E c’è attesa collettiva perché arriva in un momento delicato per il processo di pace».

Lei ha già incontrato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che cosa distingue Francesco rispetto ai predecessori?
«Ogni Papa ha personalità e messaggi propri. La leadership di questo Papa è nel dirci chi dover essere e non cosa dover fare».

C’è allarme per gli attacchi dei gruppi estremisti ebrei a chiese e moschee. Che cosa pensa di questo tipo di violenze?
«Chi vive su questa terra deve rispettare la santità dei suoi luoghi. Ogni religione deve rispettare quelli degli altri. Il governo israeliano è impegnato a consentire a ogni singola persona di avere accesso, libero e sicuro, a chiese, moschee e sinagoghe».

Gli accordi bilaterali Israele-Vaticano saranno completati?
«Sono stato io a iniziarli, dieci anni fa, e sono pressoché conclusi. Manca solo la firma. Il nostro interesse è tutelare la Chiesa a cominciare dalle sue scuole, di altissima qualità».

I negoziati promossi dagli Usa fra Israele e palestinesi sono in «pausa». Il successo resta possibile o siamo in un vicolo cieco?
«Non tutto è fermo. A Londra Kerry ha incontrato Abu Mazen e Livni ha fatto lo stesso. I negoziati sono in crisi ma non sono falliti perché nessuno ha una soluzione migliore dei due Stati, a dispetto delle tante cose che vengono dette. La maggioranza delle persone, guardate i sondaggi, è stufa di guerre. C’è un conflitto ma ebrei, cristiani e musulmani non possono accettare che i figli possano venire uccisi un giorno come avviene oggi in Iraq e Siria».

Il Papa può dare un contributo?
«Certo, i capi delle religioni si incontrano, e valgono, come i capi di Stato. Alcuni gruppi estremisti dicono di agire in nome della religione e dunque i capi delle fedi devono unirsi nell’affermare che chi uccide non va in paradiso e non può vantare legami con l’Aldilà. I grandi leader delle fedi potrebbero unirsi e parlare con un’unica voce contro il terrorismo».

L’accordo Fatah-Hamas quali conseguenze ha sul negoziato?
«Non si può avere un governo nel quale c’è chi persegue la pace e chi uccide la gente. Se Hamas continua a essere un’organizzazione terroristica che non rispetta gli accordi di pace siglati come può unirsi con Fatah? Ho negoziato con Arafat e gli dissi che fino a quando ci sono due fucili non si può avere un’unica nazione. Gli spiegai Abramo Lincoln, dicendogli che andò in guerra non per amore delle armi ma per unire la sua gente. Le divisioni non si superano solo con i pezzi di carta, servono azioni concrete. Israele nel 2005 ha lasciato completamente Gaza, avevano 8mila cittadini in 22 insediamenti protetti da 75mila agenti. Siamo andati via senza distruggere nulla. Hamas non soffre più l’occupazione ma è afflitta dalla povertà dei circa 2 milioni di residenti di Gaza. Allora perché spendere tanti soldi per tunnel o razzi? Per il bene della pace i palestinesi devono unirsi, ma scegliendo la strada della pace e non quella del terrore».

In Israele c’è chi dubita di Abu Mazen, per lei è credibile?
«Nel governo ci sono diverse opinioni su di lui ma ciò che conta è che i negoziati continuano. Conosco Abu Mazen da molti anni, Oslo fu firmato da me e lui, a Washington. Con lui si può trattare ma, certo, ha il suo pubblico. La mia esperienza è che nessun governo può ignorare la realtà: le differenze non sono così grandi come appare. I negoziati però devono essere fatti con discrezione».

Lei parla di negoziati in corso mentre siamo in un’impasse...
«Certo, c’è interruzione nei negoziati ma i contatti sono quotidiani, costanti. La polizia palestinese coopera con noi».

Sono in corso negoziati segreti?
«Se ci fossero negoziati segreti non lo direi».

La trattativa del Gruppo 5+1 con Teheran sul nucleare sembra prossima a concludersi. In quale caso il negoziato avrà successo?
«L’esito positivo è uno solo. Come detto dal presidente Obama e dai leader europei deve impedire all’Iran di diventare una potenza nucleare. Conteranno i fatti, non la combinazione delle frasi».

Il presidente iraniano dice di non volere l’atomica, gli crede?
«Se il capo dell’Iran dice che non vogliono la bomba allora perché continuano a costruire missili per trasportarla? Nessuno minaccia l’esistenza dell’Iran, è piuttosto vero il contrario. L’Iran non produce solo missili ma sostiene anche il terrorismo di Hezbollah e Hamas. Perché lo fanno? Gli iraniani devono decidere se sono una nazione di pace o di terrore. Il problema non è raccogliere delle parole, contano i fatti: devono attestare che non saranno nucleari. Gli iraniani spesso nella Storia sono stati nostri amici. Ora devono decidere di volere la pace, non la bomba».

Il 10 giugno la Knesset eleggerà il suo successore. Quali sono stati i momenti più belli o difficili del settennato?
«È stato bello dare voce ai risultati degli israeliani. È il risultato più importante. Sono stato anche premier: la differenza con l’essere presidente è che il capo del governo passa la maggioranza del tempo a sciogliere tensioni mentre da presidente, non avendo grande potere decisionale, si può dare voce a chi lo merita. Contribuire alla propria era significa sostenere e non governare, essere servitori della gente e non dei leader».

Che cosa farà quando lascerà la presidenza di Israele?
«Farò sentire la mia voce, anche se parlo con un tono basso. Abbiamo un’organizzazione no profit che tenterà di diffondere l’hi-tech. Oggi la valuta non è costituita dalla moneta ma dalla conoscenza. Sostenere i Paesi poveri con gli aiuti economici è stato errato, bisogna diffondere la conoscenza come antidoto alla miseria. La terra è tangibile, bisogna controllarla e difenderla ma nella nuova era tali compiti non spettano più ai governi, ci sono altre forze, economiche e umane, in grado di farlo».

Lei iniziò la sua carriera a fianco di Ben Gurion, il fondatore dello Stato. Quale è la lezione più importante che ne ha tratto?
«Il suo insegnamento è che le persone si uniscono non sugli interessi ma sulle visioni. Ben Gurion diede una visione agli ebrei, era un uomo di grande forza ma non c’era in lui una goccia di cinismo. Sapeva che gli ebrei si basano sui Dieci Comandamenti. Si batteva per sue idee, si dimise 15 volte da premier e per 15 volte lo richiamarono. Era un democratico, considerava la nazione ebraica parte del mondo, credeva nella saggezza frutto dell’onestà, il suo motto era “mentire mai, osare sempre”».

A luglio l’Italia assume la presidenza di turno dell’Ue, cosa c’è nell’orizzonte comune di Europa e Israele?
«Spero che l’Ue potrà dare a noi e ai palestinesi - e anche alla Giordania - uno status speciale per condurre gli scambi come se fossimo in Europa. L’allargamento dell’Ue avrebbe dovuto iniziare dal Medio Oriente perché c’è un legame profondo che viene dalla Storia e unisce Roma e Gerusalemme. È questa grande idea, ed è un’idea europea, che può essere decisiva per la pace».

Lei è stato fra i fondatori di Israele: cosa l’ha colpita di più in questi 66 anni di esistenza?
«In Israele la realtà supera il sogno. Avevamo un sogno troppo piccolo: non avevamo un’economia né l’acqua ed eravamo 600mila. Ora siamo oltre 8 milioni e alcune delle più grandi aziende del mondo sono israeliane. Non siamo un Paese industriale ma di ricerca, la nostra benedizione è la gente. Ogni nazione ha i suoi tesori, noi abbiamo i cittadini. La democrazia è una questione di autodefinizione, ognuno può esprimersi. Abbiamo ottenuto molto ma non abbiamo terminato. È il desiderio di essere perfetti che ci guida e la caratteristica determinante del popolo ebraico è l’essere scontenti perché ci spinge a essere creativi».

Che consiglio darà al suo successore?
«Ciò che più conta nella presidenza è l’autodisciplina». Maurizio Molinari - Vaticani insider

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