fede

Quando al Muro del Pianto Wojtyla chiese perdono

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

A distanza di quasi quattordici anni i ricordi del viaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa si sono addolciti, rivestiti da un’aura soffusa di benevolenza. Ma in realtà fu un viaggio difficile, tempestoso, pieno di spigoli e polemiche. Sei anni prima la Santa Sede aveva iniziato a stabilire rapporti diplomatici con lo Stato di Israele; una decisione certamente sofferta, e coraggiosa, che poteva porre in difficoltà molti cristiani nel mondo arabo. Giovanni Paolo II era stato l’artefice di quella svolta diplomatica, che ancora – a vent’anni di distanza! – attende la completa realizzazione, con una trattativa infinita, per quanto riguarda lo status della Chiesa in Israele. Ma a dispetto di quella volontà così precisa, e del fatto che probabilmente San Wojtyla è il pontefice romano più amato in ambiente ebraico, il primo impatto non fu di cordialità. Chi era presente ricorda che Giovanni Paolo giunse sotto una pioggia rada e nel vento all’aeroporto di Tel Aviv, accolto non solo dal Presidente dello Stato di Israele, Ezer Weizman, ma anche dal premier, Ehud Barak. Una cerimonia molto formale, scandita da secchi comandi militari urlati per altoparlante. L’impressione fu di molta cortesia, poco calore, avvalorata dal tono dei discorsi. “Molte generazioni si sono avvicendate dall’inizio della storia del mio popolo – disse il presidente - ma ai miei occhi è come se fossero trascorsi pochi giorni. Solo 200 generazioni sono trascorse da quando un uomo di nome Abramo lasciò la sua patria per dirigersi verso la terra che oggi è il mio paese. Solo 150 generazioni separano la colonna di fuoco salvifico dell’uscita dall’Egitto dalle colonne del fumo annientatore della Shoah. Oggi non siamo più ebrei esiliati e erranti”.

Poche furono le parole che si potevano interpretare come un benvenuto: “Apprezziamo il contributo di Sua Santità alla condanna dell’antisemitismo come ‘peccato contro il cielo e l’umanità’, e la sua richiesta di perdono per le azioni contro il popolo ebraico perpetrate in passato dalla Chiesa”. L’accento fu posto subito sul “contenzioso” esistente fra la Santa Sede e lo Stato di Israele, Gerusalemme in particolare per cui il Vaticano suggeriva in base alle risoluzioni dell’ONU, uno “status” garantito internazionalmente. “Gerusalemme è il cuore del popolo d’Israele di tutte le generazioni - disse Weizman - la fonte della nostra forza spirituale. Gerusalemme è la città dell’eternità, la città riunificata, la città dei giudici d’Israele, dei re d’Israele e dei profeti d’Israele, capitale e vanto dello Stato d’Israele”.

Il Papa ricordò “Quanto sia urgente la necessità di pace e di giustizia, non solo per Israele, ma anche per tutta la regione”. “Giustizia per tutti”, ha ripetuto perché cristiani ed ebrei, “devono compiere sforzi coraggiosi per rimuovere tutte le forme di pregiudizio”. All’aeroporto non c’era, fra gli altri capi religiosi, il Gran Muftì di Gerusalemme, (per ragioni politiche, verso il governo israeliano) né i due rabbini capo di Israele, quello sefardita e quello ashkenazita. Motivazione ufficiale: ieri era Purim, una festa che ha analogie con il nostro carnevale. A Gerusalemme un solitario striscione dava il benvenuto: «Gerusalemme accoglie il suo Santo Padre». Un clima ben diverso dalla messa del giorno precedente ad Amman, dove la folla ha rotto i cordoni di sicurezza pur di avvicinarsi al Papa.

E certamente sembra che siano passati ben più di quattordici anni se il ricordo va all’incontro con il presidente dell’Autorità Palestinese, Arafat, che ricevette il Papa come se la Palestina fosse già uno Stato. Giovanni Paolo II ha baciato, come all’arrivo a Tel Aviv, una ciotola di terra. E ha ricordato che “La Santa Sede ha sempre riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto naturale ad avere una patria, e il diritto a poter vivere in pace e tranquillità con gli altri popoli di quest’area”. Ribadendo il concetto: non si può “porre fine al conflitto in Terra Santa senza salde garanzie per tutti i popoli coinvolti, sulla base della legge internazionale e delle importanti risoluzioni e dichiarazioni delle Nazioni Unite”. Sembrava che molto fosse a portata di mano: e invece. “Noi siamo alla vigilia della Resurrezione”, disse Arafat. Alla messa celebrata a Betlemme Arafat, musulmano, era in prima fila con la moglie Suha cristiana. “Betlemme è al centro del mio pellegrinaggio giubilare disse papa Wojtyla -. I sentieri che ho seguito mi hanno condotto a questo luogo e al mistero che esso proclama. Questo è un luogo che ha conosciuto il giogo e il bastone dell’oppressione. Quante volte si è udito in queste strade il grido degli innocenti”. Durante la messa invece tacque la voce del mu’azin. “Un segno della cooperazione fra religioni”, commentò Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme...(Vatican Insider)

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