CHE EMOZIONE, L'EMOZIONE NELLA BIBBIA LEZIONE STORICA DEL CARD. RAVASI
Come chi, messosi in mare su di una barchetta, viene preso da immensa angoscia nell’affidare un piccolo legno all’immensità delle onde, così anche noi soffriamo mentre osiamo inoltrarci in così vasto oceano di misteri
«Come chi, messosi in mare su di una barchetta, viene preso da immensa
angoscia nell’affidare un piccolo legno all’immensità delle onde, così anche noi
soffriamo mentre osiamo inoltrarci in così vasto oceano di misteri» (In Genesim
Homiliae IX, PG 12, 210). La stessa tensione di cui parla Origene alla soglia della
sua impresa di commentare omileticamente la Genesi si ripete in chi vuole tentare
anche solo un abbozzo della teologia biblica delle emozioni. Due sono le ragioni di
questa paura. Da un lato c’è l’enorme fluidità della definizione e classificazione delle
emozioni: in uno studio pubblicato nel 1981 da due ricercatori del Georgia Southern
College1 si elencavano ben 92 definizioni a cui si accostavano 9 dichiarazioni
scettiche sulla possibilità di definire una realtà così mutevole, affidata anche nella
Bibbia – come vedremo – a una costellazione lessicale e simbolica complessa e varia.
D’altro lato, questo processo umano a molte componenti affiora nell’arco
intero delle pagine bibliche con una ricchezza impressionante e non comprimibile in
uno stampo rigoroso teorico, a partire dalla stessa emozione estetica del Creatore che
contempla la bellezza/bontà (tôb) della sua opera nel c. 1 della Genesi, fino alla
tensione che si respira nell’ultima pagina dell’Apocalisse ove si anela alla venuta del
Signore Gesù (22,17.20). Entro questi due estremi si distende un vero e proprio
album di emozioni difficilmente catalogabili. Si tratta di uno spettro cromatico
emotivo che procede dal violetto gelido dell’angoscia o paura e approda al rosso
caloroso della gioia o della tenerezza. Per questo è necessario procedere solo per
sondaggi selettivi o per emblemi (ad esempio, il Salterio potrebbe trasformarsi già da
solo in un vocabolario di tutto l’arco emozionale umano).
L’orizzonte emozionale umano e divino delle Scritture
Iniziamo, allora, con una sorta di premessa che delinea in modo molto libero e
“impressionistico” l’orizzonte nel quale entriamo. Successivamente sceglieremo
alcune piste su cui inoltrarci. Parlavamo sopra della mobilità fluida di questa
categoria per cui non di rado si adottano come sinonimici vocaboli e realtà che in
verità sono variegati e diversificati. Proviamo soltanto a scorrere questa lista
lessicale: emozione, passione, desiderio, sentimento, affetto, stati d’animo (moods),
attitudini, istinto, pulsione, inclinazione, disposizione, attenzione, aspirazione,
eccitazione, impressione, commozione, turbamento, apprensione, inquietudine e così
via. Oppure, se si volesse inventariare in due colonne le rispettive dimensioni positive
e negative delle emozioni, si avrebbe un’altra interminabile catalogazione.
Nella casella positiva si potrebbe, ad esempio, collocare il piacere, l’affetto,
l’eros, la tenerezza, la simpatia, la pietà, il rispetto e così via. Sul versante negativo,
ecco il dispiacere, l’antipatia, l’odio, l’orrore, la crudeltà, il porno, il disgusto, la
nausea, il ribrezzo, il disprezzo, l’indifferenza, il disinteresse e così via. Più specifica
ma altrettanto complessa sarebbe l’analisi dell’attenzione alle emozioni che alcuni
metodi esegetici letterari riservano ai testi biblici. Pensiamo alla retorica sia classica
sia moderna che alla dispositio strutturale, all’ornatus stilistico e alle varie forme
testuali assegna un tasso di performatività, ossia di influsso anche emozionale
sull’uditore-lettore. Oppure potremmo anche riferirci alla narratologia che tiene conto
della compresenza nell’opera letteraria sia dell’autore col suo bagaglio emotivo sia
del lettore che è coinvolto nell’adesione alla trama.
Questo orizzonte così molteplice e mobile, simile a un caleidoscopio, è di sua
natura dinamico tant’è vero che ogni emozione ha gradi e accenti diversi di
incarnazione secondo le diverse personalità dei soggetti umani. È interessante notare
che nelle lingue neolatine ma anche nell’area anglosassone, il lessico usato per
definire questa esperienza vitale ha alla base proprio il movimento. Infatti è dal verbo
latino movere che derivano “emozione, commozione, rimozione” e gli analoghi
francesi o spagnoli, così come in inglese si ha “emotion, commotion, emotional”,
mentre “commuovere” è “to move”. Analoga semantica regge il tedesco
“Gemütsbewegung” che evoca appunto il movimento (“Bewegung”) dell’animo
(“Gemüt”), mentre suggestivamente “bewegen” può indicare sia il “muovere” sia il
“commuovere”, e “Bewegung” è sia “movimento” sia “commozione”.
Anche se il suo vocabolario emozionale è più di natura simbolica, come
avremo occasione di vedere, sta di fatto che la Bibbia offre un panorama immenso di
esperienze che possono essere riportate alla categoria “emozione” e ai suoi corollari.
Il Dio biblico – a differenza del Motore immobile aristotelico o del Fato greco – è un
Dio “patetico”, che conosce la tenerezza e la passione, la delusione e l’amarezza, la
gioia e la tristezza (Gen 6,6; Sal 78,40), passa dal riso allo sdegno (Sal 2,4-5),
conosce la gelosia d’amore e la trepidazione per i tradimenti. Così avverrà in Cristo,
sulla cui emotività ritorneremo: la sua empatia con l’umanità è connessa alla sua
incarnazione: «Non abbiamo, infatti, un sommo sacerdote che non sappia prendere
parte alle nostre debolezze, perché egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa
come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15).
Similmente l’uomo biblico non ha come ideale il raggiungimento di uno stato
di apátheia, come esortava la filosofia sia epicurea sia stoica. Si potrebbe, al
riguardo, considerare il libro di Giobbe come un vero e proprio atlante delle emozioni
e dei sentimenti che si muovono e si agitano nell’area oscura della prova e della
sofferenza umana. Queste esperienze vengono assunte dall’autore sacro come i
lineamenti di un’antropologia ma anche come una via di conoscenza teologica, tant’è
vero che il loro estuario estremo è la teofania («io ti conoscevo per sentito dire, ora i
miei occhi ti hanno visto» 42,5). Lo stato emozionale si trasforma, quindi, in una via
per conoscere e incontrare Dio, divenendo così una componente strutturale della fede.
Senza essere esaustivi ma procedendo solo a livello esemplificativo, potremmo
raccogliere e ordinare nella Bibbia tutte le tipologie emotive fondamentali.
Così, pensiamo al curioso dialogo interiore dell’orante col suo “io” che versa in
uno stato di eccitazione, presente nell’antifona che costella il Salmo 42-43: «Perché ti
rattristi, anima mia, perché ti agiti in me?» (42,6.12; 43,5). Esemplari in questa linea
sono le “confessioni” che Geremia incastona nei cc. 11-20 del suo libro profetico2.
Pensiamo anche all’essenziale ma incisiva rappresentazione della pulsione alla
violenza, generata dall’invidia, in Caino (Gen 4,1-8) con l’annotazione sulla dialettica
tra istinto primordiale e volontà cosciente: «Il peccato è accovacciato alla tua porta,
verso di te è il suo istinto, ma tu lo puoi dominare» (4,7). Pagine veementi e di
straordinaria finezza psicologica sono dedicate alla pulsione sessuale, a partire da
Davide che rimane affascinato dalla bellissima Betsabea nuda (2Sam 11,2), fino a
cadere nella piena cecità morale. Acuta è l’analisi del trapasso dalla passione amorosa
all’odio in Amnon travolto dalla pulsione erotica per la sorellastra Tamar: dopo
averla violentata, egli «concepì verso di lei un odio veemente, l’odio verso di lei era
più grande dell’amore con cui l’aveva amata prima» (2Sam 13,14-15).
La coppia eros e violenza si presenta in forme incandescenti nel racconto della
tentata violenza dei Sodomiti (Gen 19) o nella macabra narrazione dello stupro della
concubina del levita a Gabaa (Gdc 19) o nella più sottile “sceneggiatura” che vede
come protagonista Susanna, sottoposta alle voglie dei due anziani (Dn 13). Potremmo
poi proseguire con la celebre descrizione della depressione che colpisce Saul, con
risvolti di mania di persecuzione (cf. 1Sam 18-26). Questo abbattimento emotivo si
ripete in forma attenuata anche nel re Acab amareggiato per il rifiuto di Nabot di
cedergli la sua vigna (1Re 21,4: «si coricò sul letto, voltò la faccia da un lato e non
mangiava più»). C’è, poi, il terrore che invade un altro sovrano, Baldassar, di fronte
alla mano misteriosa che scrive sulla parete un oracolo nefasto (Dn 5). C’è, infine,
l’esplosione del senso di colpa e del rimorso che conduce al suicidio Giuda (Mt 27,3-
10).
Concludiamo questa libera e incompleta esemplificazione della molteplicità
fenomenica dell’esperienza emozionale offerta dalle Scritture con un episodio molto
suggestivo che sta nel cuore dell’intensa storia di Giuseppe l’egiziano. Egli riesce
inizialmente a controllarsi, a «fare l’estraneo [verso i suoi fratelli] e a parlare loro
duramente» (Gen 42,7-8). Ma poi l’emozione sale di livello, per cui è costretto ad
«andare in disparte per piangere» (42,24). Di fronte, poi, al piccolo Beniamino, figlio
della sua stessa madre Rachele, Giuseppe deve «affrettarsi a uscire perché si era
commosso nell’intimo alla presenza di suo fratello e sentiva il bisogno di piangere,
entrando nel suo appartamento privato per piangere. Poi, però, si lavò la faccia, uscì e
si fece forza» per pranzare con tutti i fratelli (43,29-31). Ma alla fine l’onda del
sentimento è così forte che «non poté più trattenersi... e si fece conoscere dai fratelli e
proruppe in un grido di pianto» di fronte ai fratelli sconvolti (45,1-3).
Conoscenza, emozione, passione
Dopo questa sorta di sguardo dall’alto sul fenomeno emotivo e sulla sua
presenza come un filo rosso nelle Scritture, cercheremo di impostare un discorso più
sistematico attorno a questa categoria antropologica strutturale che discende dalla
condizione psicofisica unitaria della persona umana secondo la Bibbia. A questa
concezione, infatti, potremmo applicare un’espressione del poeta francese Charles
Péguy: la spiritualità per le Scritture non è eterea ma sboccia da un’“anima carnale”.
L’esistenza umana è vista, quindi, non solo come spirituale e razionale ma anche
come sentimentale, emotiva, passionale: per l’uomo biblico è vero quello che un altro
grande poeta come Giacomo Leopardi affermava nel suo canto intitolato Aspasia
(1835): «Che se d’affetti / orba la vita, e di gentili errori, / è notte senza stelle a
mezzo il verno». Chi non prova emozioni è un essere “invernale”, frigido e
tenebroso. Come notava Ivan Illich, uno dei drammi contemporanei è proprio «la
perdita dei sensi», che si manifesta paradossalmente oscillando tra i due estremi della
bulimia sensoriale, materialistica e carnale e dell’anoressia astratta, legata a sensi
ormai digitalizzati o ridotti a protesi nella comunicazione informatica, coma ha
insegnato invece Marshall McLuhan.
Cerchiamo, allora, di ricomporre una sorta di grammatica del sentire
emozionale biblico. Partiamo dalla struttura di base che ha come fondamento la
gnoseologia generale biblica. Come è noto, essa si presenta secondo un’impostazione
simbolica e quindi unitaria e polimorfa al tempo stesso, capace di comporre in
armonia il pensare, il volere, il sentire, l’agire, ossia le dimensioni intellettiva,
volitiva, affettiva ed effettiva. Ciò che nell’epistemologia moderna occidentale viene
separato negli approcci razionale, psicologico, filosofico, scientifico, etico, estetico,
mistico-religioso è, nella concezione semitica (ma non solo), coordinato in unità nella
medesima esperienza umana conoscitiva. Illuminante al riguardo è la semantica del
verbo jd‘ (che registra 1119 occorrenze nell’Antico Testamento) e quella
neotestamentaria del verbo greco ghinoskein (222 occorrenze) che può sconfinare
persino nell’atto sessuale come esito terminale della conoscenza interpersonale (cf.
Mt 1,25) e che si allarga all’intera adesione personale (cf. Gv 10,14-15; 17,3)3.
In questa luce le “ragioni del cuore”, per usare la celebre locuzione pascaliana,
sono distinte ma non separate nell’unico atto conoscitivo dell’unica e identica
persona. Per questo nella descrizione della soggettività umana attiva nella sua
conoscenza, coscienza e opzione, oltre alla razionalità, è da allegare anche la galassia
del sentimento. Semplificando la mappa delle articolazioni emotive così come sono
state delineate dalle analisi moderne, noi ora ci baseremo su poche componenti
strutturali. La prima riguarda una distinzione tra due elementi tra loro connessi. Da un
lato, c’è l’emozione che noi consideriamo come una reazione istantanea soggettiva
che nasce dalla relazione tra una persona e un evento saliente e incisivo, capace di
coinvolgere quella conoscenza totale psicofisica che sopra abbiamo evocato. È,
dunque, un atto epifanico perché fiorisce da un’irruzione che si rivolge e a noi, ci
avvolge, ci coinvolge e persino ci travolge. Naturalmente la reazione risultante può
essere antitetica: può generare adesione, azione, commozione, ma può produrre anche
rimozione, rigetto, blocco operativo.
D’altro lato, come conseguenza di un’emozione iniziale può indursi e
stabilizzarsi nella persona una reazione duratura e persino permanente, divenendo
costitutiva dell’essere personale: è la passione che può acquistare tonalità maggiori o
minori secondo la sua continuità nel tempo lungo la vita di un soggetto. Anch’essa
può registrare due sbocchi antitetici, trasformandosi in virtù o in vizio. Nella nostra
analisi non potremo certo sviluppare in modo netto o articolato questo processo: la
trattazione, ad esempio, dei sette vizi capitali esigerebbe un immenso dossier
documentario. Ci accontenteremo di individuare solo alcune emozioni che facilmente
sconfinano poi in passioni dalla vicenda successiva molto vasta e complessa.
L’oscuro e luminoso oggetto del desiderio
Dopo questa prima distinzione strutturale tra emozione e passione, ci sembra
utile proporre un’altra componente rilevante che ha un largo spazio nell’orizzonte
biblico: si tratta del desiderio. Esso può essere considerato come il motore radicale
dell’intero conoscere umano nella sua globalità razionale-sensitiva-operativa, e
quindi anche dell’emozione e della passione. È un’energia vitale che nasce dalla
scoperta del proprio limite creaturale e dalla relativa volontà di superarlo tendendo
verso l’oltre e l’altro, anzi, verso l’Oltre e l’Altro per eccellenza, ossia verso l’eterno,
l’infinito, il trascendente, l’assoluto, il divino (non per nulla il vocabolo “desiderio”
rimanda etimologicamente ai sidera, alle “stelle”). La Bibbia lo presenta come
sorgente fondamentale dell’intero “conoscere” umano, come manifestazione della
libertà personale e come crocevia della morale. Infatti nella pagina jahvista della
creazione, «la donna vide che l’albero [della conoscenza del bene e del male] era
buono da mangiare, gradevole agli occhi, desiderabile per avere saggezza» (Gen 3,6).
Si ha, così, sia l’aspetto emotivo-sensoriale (il gusto e la vista) sia il versante
intellettuale e psicologico (la sapienza) sia la dimensione morale (la conoscenza del
bene e del male).
Il vocabolo fondamentale ebraico del desiderio è ḥmd a cui si associa ‘wh:
esemplari sono il nono e il decimo comandamento, «Non desidererai (ḥmd) la casa
del tuo prossimo, non desidererai (ḥmd) la moglie del tuo prossimo... Non desiderera
(ḥmd) la moglie del tuo prossimo, non bramerai (‘wh) la casa del tuo prossimo...» (Es
20,17; Dt 5,21)4. Il termine neotestamentario è, invece, epithymía che si fonda su
thymós, a sua volta basato sull’indoeuropeo dhu che evoca il turbinio dell’aria a
vortice e che suppone un moto violento e quindi una brama incontrollabile5.
Contrariamente a quanto accade nella concezione contemporanea, il desiderio biblico
(si veda in particolare Mt 5,27 e 6,21-23) non è riducibile a una vaga reazione
emotiva davanti a un soggetto/oggetto attraente, bensì è considerato nella sua qualità
di vera e propria scelta vitale, è una decisione etica, un progetto intenzionale e
operativo. È il mirare a una realtà per conquistarla, consacrando a questa attuazione
mente, volontà, azione. Si ha, in pratica, una conferma della concezione gnoseologica
simbolica globale che abbiamo descritto, applicata alla dimensione volitiva.
Il desiderio, come i suoi corollari che sono l’emozione e la passione, rivela due
volti. C’è l’oscurità perversa del desiderio che ha il suo vertice nella tentazione e nel
peccato. Sintetica è la Lettera di Giacomo: «Ciascuno è tentato dal proprio desiderio
(epithymía) che lo attrae e seduce, poi il desiderio (epithymía) concepisce e genera il
peccato e il peccato, una volta commesso, produce la morte» (Gc 1,14-15). Sarà
soprattutto Paolo a puntare l’indice contro la degenerazione del desiderio, tant’è vero
che per lui epithymía è sostanzialmente una categoria negativa (Rm 1,24; 6,12; 7,7;
Gal 5,24; Col 3,5; 1Tim 6,9; 2Tim 3,6; Tt 2,11-12; 3,3). In particolare l’epithymía
sarkós – dove sárx, “carne”, è ovviamente da intendere in senso paolino come
principio negativo che conduce al peccato – è l’apice di questa degenerazione. Il
cristiano, allora, «deve camminare secondo lo Spirito per non essere portato a
soddisfare il desiderio della carne. La carne, infatti, ha desideri contrari allo Spirito e
lo Spirito ha desideri contrari alla carne: queste cose si oppongono a vicenda» (Gal
5,16-17). Una prospettiva analoga è presente anche nella letteratura giovannea nella
quale si bollano i desideri di chi ha per padre il diavolo e che sfociano in omicidio e
menzogna (Gv 8,44; cf. 1Gv 2,16-17).
Esiste, però, anche una regione luminosa ove il desiderio è “in-finito” perché
ambisce all’Infinito divino. Come si ha nell’invocazione «Venga il tuo Regno!», un
Regno che dev’essere cercato e desiderato prima di ogni altra realtà (Mt 6,33). Già
nell’Antico Testamento la fede è descritta come un desiderare-cercare che approda a
un esito di comunione: «Cercate il Signore perché si fa trovare! ... Mi cercherete e mi
troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; io mi lascerò trovare da voi» (Is
55,6; Ger 29, 13-14). I fedeli sono definiti come coloro che «cercano il Signore» (Is
51,1). Il loro è un desiderio di Dio quasi fisico perché la nefeš, che
contemporaneamente è “gola” e “anima”, ha sete di Dio (Sal 42,2-3; 63,2; Am 8,11).
È, però, interessante notare che per la Bibbia il primato è da assegnare al
desiderio di Dio stesso nei confronti della sua creatura, un anelito che precede, eccede
ed esaudisce il desiderio umano: «Risposi a chi non mi consultava, mi feci trovare da
chi non mi cercava. Dissi: Eccomi! Eccomi! a un popolo che non mi cercava» (Is
65,1; cf. Rm 10,20). «Prima che mi invochino, io risponderò; mentre ancora stanno
invocandomi, io li avrò già esauditi» (Is 65,24). Significativa è la parabola della
pecora smarrita e cercata dal pastore, così come la via paolina di Damasco o
l’invocazione salmica: «Cerca il tuo servo, Signore» (Sal 119,176)6.
Questa forte connotazione teologica e mistica – oggettiva e soggettiva – del
desiderio non esclude, però, che nella Bibbia sia assente la dimensione puramente
umana. Straordinario a questo proposito è il Cantico dei cantici, capace di intrecciare
in armonia unitaria sessualità, eros e amore, desiderio carnale e anelito spirituale,
abbraccio dei corpi e incontro delle anime. Tutto il poema è attraversato dal
desiderio, a partire dal bacio appassionato iniziale (1,2-4) per giungere – anche
attraverso l’oscurità e la caduta del desiderio (3,1-5 e 5,2-6,3) – alla scena finale che
è un nuovo inizio, come accade all’insaziabilità del desiderio che è appunto ricerca
instancabile (8,14). Il desiderio amoroso è un costante contrappunto tra presenza e
assenza, possesso e conquista; la meta non è mai definitiva perché la tensione “infinita”
sottesa al desiderio non si estingue in un mero possesso carnale ma si protende
verso una pienezza trascendente. Questo è il filo conduttore del desiderio che
percorre il Cantico. Come scriveva Lacan, «se bisogna fondare la nozione dell’Altro
(con una A maiuscola) come luogo della parola, bisogna affermare che, essendo
l’uomo un animale in preda al linguaggio, il suo desiderio è il desiderio dell’Altro».
Cuore, viscere, reni, naso, fegato: gli organi dell’emozione
Dopo aver delineato la struttura dell’emozione-passione-desiderio secondo le
categorie bibliche, dobbiamo ora riservare un esame specifico agli organi che
presiedono alla produzione emotiva della persona umana. Naturalmente alla base c’è
sempre la concezione antropologica unitaria psico-fisica adottata dalle Scritture che
ricorre a simboli fisiologici. A livello diverso, sono quattro gli organi coinvolti e noi
ora li presenteremo solo per la funzione che essi esplicano riguardo all’esperienza
emozionale.
L’organo principe dell’interiorità è per la Bibbia il cuore: il rilievo è evidente
anche a livello lessicografico perché l’ebraico e aramaico leb/lebab risuona 860 volte
mentre, nel Nuovo Testamento, kardía ricorre 156 volte. È curioso notare che Hans
Walter Wolff nel suo noto saggio sull’Antropologia dell’Antico Testamento (1973)
colloca il “cuore” nel capitolo dedicato all’“Uomo razionale” e afferma che «”cuore”
è il concetto antropologico biblico di gran lunga più diffuso. Esso copre tutto
l’ambito delle emozioni, delle funzioni intellettive, delle funzioni volitive..., è il
centro dell’uomo che vive in maniera consapevole». In pratica col “cuore” si designa
l’io nell’esercizio delle sue capacità interiori. È, quindi, razionalità (Pr 15,14; 1Re
3,9-10), è principio delle opzioni etiche (Pr 6,18; Mc 7,21-22), è radice dell’autentica
religiosità (Ez 11,19).
Tuttavia il cuore è anche la fonte della vita affettiva e passionale. Freme come
albero agitato dal turbine (Is 7,2), diventa molle come cera nella paura (Sal 22,15), si
dissolve in acqua per il terrore (Gs 7,5), conosce la depressione ma anche
l’esaltazione della gioia (Pr 15,13; 17,22). L’innamoramento e la sua ebbrezza sono
così celebrati nel Cantico da parte dell’amato: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia,
sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo sguardo!» (Ct 4,9), mentre il giorno delle
nozze nel linguaggio semitico è comunemente definito «il giorno della gioia del
cuore». Una gioia che più prosaicamente è indotta anche dal vino (Sal 104,15), ma la
degenerazione può essere in agguato con l’offuscamento dell’ubriacatura (Pr 23,31-
33), così come accade anche nella bramosia sessuale: «Non nutrire nel tuo cuore
desiderio per la bellezza» della moglie del tuo vicino (Pr 6,25). È, comunque,
indubbio che «un’attesa troppo lunga fa male al cuore, mentre il desiderio soddisfatto
è un albero di vita» (Pr 13,12).
Il secondo organo emozionale per eccellenza è incarnato dalle viscere,
soprattutto materne, espresse in ebraico dalla nota radice rḥm che echeggia anche
nell’incipit di tutte le sure (tranne la 9) del Corano nella formula detta basmala: bismi
Llah al-raḥman al-raḥim, «nel nome di Dio, il clemente e il misericordioso».
Applicato anche a Dio è il simbolo dei raḥamîm, del grembo materno, usato per
indicare un sentimento quasi istintivo e indistruttibile di amore per cui il ritratto
perfetto divino è quello formulato da Paolo come colui che è «ricco di misericordia»
(Ef 2,4). L’Apostolo, però, qui usa l’astratto éleos, ma nel Nuovo Testamento si
ricalca il simbolismo “viscerale” ebraico attraverso il verbo splanchnízomai (12
volte: Mt 9,36; 14,14; 15,32; 18,27; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; 9,22; Lc 7,13; 10,33;
15,20) e il sostantivo splánchnon (11 volte) e i derivati eusplánchnos (Ef 4,32; 1Pt
3,8) e polysplánchnos (Gc 5,11)8.
L’aspetto emotivo di questa terminologia è espresso in modo folgorante dal
grido di Geremia: «Le mie viscere! Le mie viscere! Sono straziato! Mi scoppia il
cuore in petto, mi batte forte!» (4,19) o da quello della Gerusalemme personificata:
«Guarda, Signore, quanto sono in angoscia, le mie viscere si agitano, dentro di me è
sconvolto il mio cuore» (Lam 1,20). Si noti il legame costante con l’altro organo
emozionale, il cuore. Attraverso i raḥamîm o il verbo splanchnízomai si riesce a
ricomporre tutta la gamma di una tra le più delicate emozioni, la tenerezza, che in
seguito considereremo in modo diretto.
C’è innanzitutto la tenerezza fraterna che brilla nel già citato incontro di
Giuseppe coi suoi fratelli quando la commozione colpisce le sue viscere (Gen 43,30).
C’è la tenerezza istintiva materna (Is 49,15-16) e paterna (Ger 31,20; Os 11, 8-9; Lc
15,20) che viene applicata a Dio stesso. C’è la tenerezza umana fatta di comprensione
e di condivisione, come spesso avviene nell’incontro di Gesù coi malati (Mt 20,34;
Mc 1,41), le persone straziate dal dolore come la vedova di Nain (Lc 7,13) o le folle
affamate, misere e sofferenti (Mt 9,36; 14,14; 15,32; Mc 6,34), tant’è vero che la
Lettera agli Ebrei conia la definizione di Cristo come «sommo sacerdote
misericordioso» (2,17) usando però l’aggettivo eleêmôn. L’amore per il prossimo
sventurato deve smuovere le viscere come accade al Samaritano della parabola (Lc
10,33), diversamente dal levita e dal sacerdote che passano oltre, indifferenti al
dolore della vittima. In sintesi vale il monito giovanneo: «Se uno ha ricchezze di
questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità gli chiude le proprie viscere
(splánchna), come dimora in lui l’amore di Dio?» (1Gv 3,17). Per questo bisogna
essere «misericordiosi (oiktírmones) come misericordioso è il Padre» celeste (Lc
6,36) e «beati sono i misericordiosi (eleêmônes) perché riceveranno misericordia»
(Mt 5,7).
Un terzo organo che assume in sé significati legati all’emotività, dopo cuore e
viscere, è rappresentato dai reni, in ebraico kelajôt: essi sono la sede degli affetti,
delle passioni, degli impulsi, per certi versi anche dell’inconscio (Ger 12,2; Sal
73,21; Gb 19,27; Pr 23,16). Dio riesce a penetrare anche in quell’orizzonte profondo,
può illuminarlo (Sal 16,7), lo squarcia col suo sguardo (Ger 20,12), lo sonda (Sal
7,10) e lo vaglia con le prove (Ger 11,20; 17,10), lo raffina e purifica (Sal 26,2). È
stato, infatti, lui che nella gestazione del feto nel grembo della madre ha modellato i
reni (Sal 139,13). I reni spesso sono messi in parallelo al cuore, mentre altre volte
appaiono attraverso l’eufemismo dei “fianchi” (motnajîm): «Devastazione,
spoliazione, desolazione, cuori scoraggiati, ginocchia vacillanti, brividi ai fianchi, su
tutti i volti il pallore» (Na 2,11). Se qui è di scena il terrore, col vocabolo greco
nephroí, “reni”, è invece descritta l’indignazione che pervade il padre dei Maccabei,
Mattatia, quando assiste all’atto di un ebreo che accetta di compiere un sacrificio
idolatrico nel suo villaggio, Modin: «Vedendo questo, Mattatia arse di sdegno,
fremettero i suoi reni e fu preso da giusta collera. Si fece avanti di corsa e uccise
quell’uomo sull’altare» (1Mac 2,24). Ma i reni riescono anche ad emozionarsi
nell’empito della gioia: è il caso del padre che «esulta nei suoi reni perché le labbra
[del figlio] dicono parole rette» (Pr 23,16)9.
Concludiamo questa nostra diagnosi fisiologico–simbolica con due organi
marginali eppure suggestivi. Innanzitutto il naso, la narice, ̕af / ̕ap che nella sua
genesi ( ̕anf) evoca onomatopeicamente lo sbuffare delle narici quando la persona è
travolta dall’ira. Per questo, in modo traslato, diventa il termine specifico per
indicare lo sdegno e la collera. Come annota L. Alonso Schökel10, ̕af è «la sede della
passione irascibile e, quindi, dal significato fisico passa a significare ira, collera,
coraggio, rabbia, furia, furore, irritazione, indignazione, risentimento, astio, livore».
Si apre, così, un capitolo particolarmente rilevante che può ospitare al suo interno un
duplice e antitetico profilo, quello virtuoso dell’ira come sdegno morale e quello
vizioso dell’ira come rabbia aggressiva.
Sul primo versante dell’̕af come ira di indignazione etica, si ha
l’antropomorfismo dell’«ira del Signore che si accende contro Israele» peccatore (ad
es. Gdc 3,8) tant’è vero che “il giorno dell’ira” è una metafora per designare il
giudizio divino (Ez 7,10; So 1,15.18; Mt 3,7; 1Ts 1,10; Rm 2,5; 12,19). In tutte le
lingue, e quindi anche nel linguaggio biblico, sono adottate spesso al riguardo
immagini “ignee”: l’ira arde, brucia, divampa (in ebraico si usa il vero ḥrh). Non per
nulla chi è adirato è descritto come se sprizzasse scintille, il suo sangue ribolle ed è
caldo, s’infiamma di collera, s’accende di rabbia, fa fuoco e fiamme, si accalora e
così via. Dio stesso è partecipe di questa emozione psicofisica per cui il Salmista
proclama retoricamente: «Chi non conosce l’impeto della tua ira e, nel timore di te, la
tua collera?» (Sal 90,11).
Alla stessa linea si deve ricondurre il genere dei Salmi imprecatori che
grondano emotività (cf. in particolare il Sal 58) e che si inseriscono in questa
atmosfera di appello alla giustizia di un Dio morale, che si schiera dalla parte delle
vittime. Lo stesso accade per un altro genere letterario di stampo profetico, quello dei
“Guai!” (si vedano, ad es., Is 5,8-22; Mt 23,13-33). Ciò, però, non esclude che nella
Bibbia non sia denunciato anche il secondo aspetto dell’ ̕af, quello dell’ira crudele e
offensiva, dal furore impetuoso e cieco (Pr 27,4), della «lite concitata che accende il
fuoco e della rissa violenta che fa versare il sangue» (Sir 28,11). Proprio per questo,
Paolo nelle “opere della carne” pone un corteo settenario di reazioni viziose
riconducibili proprio all’ira degenerata: «inimicizie, discordia, gelosia, dissensi,
divisioni, fazioni, invidie» (Gal 5,20-21). E il suo ideale appello finale è: «Non
tramonti il sole sopra la vostra ira!» (Ef 4,26).
C’è un’ultima componente organica che per la Bibbia può assurgere a sede di
reazioni emotive: è il fegato. La sua identificazione è talora difficile perché il raro
vocabolo kabed (14 volte nell’Antico Testamento: cf. ad es. Es 29,13.22; Lv 3,4; 4,9;
9,10.19; Pr 7,23) ha le stesse radicali di un termine molto più diffuso e nobile, kabôd,
“gloria”, soprattutto divina. Per questo «esiste una serie di casi dell’uso di kabôd,
gloria, che potrebbero essere adattamenti successivi, spiritualizzanti, di un originario
kabed, fegato»11. Sta di fatto che – oltre a indicare l’organo materiale presente nel
corpo umano e negli animali sacrificati nel culto e oggetto di epatoscopia magica per
trarne le sorti (Ez 21,26) – il fegato è considerato talora come la sede di emozioni
forti. Così, il lamento che sale dallo spettatore della rovina di Gerusalemme sotto le
armate di Nabucodonosor, comprende questo grido: «Si sono consunti per le lacrime i
miei occhi, le mie viscere sono sconvolte, si riversa per terra il mio fegato (kabed)»
(Lam 2,11). È in pratica la bile che incarna l’effluvio di un summus animi dolor12.
Positiva è, invece, la funzione che viene assegnata al fegato per esprimere la
pace e la serenità dell’orante nel Salmo 16,9 ove sono citati il cuore (leb), la
corporeità intera (basar) e, appunto, il fegato (kebedî) che però i Masoreti – come
sopra si notava – hanno confuso col più comune kabôd, “gloria”, mentre prima (16,7)
si introducevano i reni (kiljôt): «Per questo gioisce il mio cuore ed esulta il mio
fegato, anche la mia carne abita al sicuro» (16,9). Si ha, così, in questo Salmo una
vera e propria lista di tutte le metafore organiche considerate dalla Bibbia come le
fonti dell’emotività, degli affetti, delle passioni13.
L’angoscia di Gesù
A questo punto dovremmo sottoporre ad analisi più accurata alcune “famiglie”
emozionali fondamentali, sempre tenendo conto della fluidità che queste categorie
comportano, capaci come sono di sconfinare in altre esperienze umane. La ripetuta
affermazione sull’unitarietà simbolica dell’antropologia biblica rende difficile
dirimere in modo netto i vari perimetri. Se stiamo alla vasta bibliografia di taglio
psicologico, sociologico e persino medico e scientifico, potremmo isolare quattro
famiglie di emozioni dalle tonalità molto variegate14.
1. Paura: angoscia, ansia, timore, nervosismo, apprensione, tensione,
esitazione, spavento, terrore e così via fino alla patologia delle fobie o del
panico.
2. Collera: ira, sdegno, furia, rabbia, irritazione, esasperazione, acrimonia,
animosità, fastidio, irritabilità, ostilità fino all’odio e alla violenza
patologici.
3. Tristezza: dolore, pena, malinconia, solitudine, isolamento, amarezza,
desolazione, abbattimento fino alle patologie depressive.
4. Gioia: godimento, allegria, beatitudine, tenerezza, affetto, piacere, estasi,
euforia, soddisfazione, esaltazione fino a forme di entusiasmo maniacale e
fanatico.
Noi ora in questo arcobaleno così vario di colori tematici sceglieremo soltanto
due modelli estremi: usando un’immagine già descritta nell’introduzione, da un lato
presenteremo il “violetto” gelido dell’angoscia con tutte le sfumature che comporta
(angustia, ansia, inquietudine, apprensione, affanno, tormento, pena, pianto…), e
d’altro lato, sceglieremo il “rosso” caloroso dell’affetto che si manifesta nell’intimità
con la tenerezza e lo slancio dell’appartenenza reciproca. Naturalmente dati i limiti
della nostra analisi, si tratterà solo di alcuni spunti, passibili di ulteriori
approfondimenti. Partiamo, dunque, dal campo d’azione dell’angoscia che, come è
noto, ha ricevuto uno scavo accurato e suggestivo da parte di Kierkegaard nel suo
Concetto dell’angoscia (1844) ove questa esperienza dalle forti emozioni è vista
come trampolino di lancio verso la trascendenza.
Dal punto di vista lessicale nelle principali lingue europee essa è formulata
attraverso il simbolo di una ristrettezza, quasi di un carcere, come suggerisce la
radicale che genera “angustia, angoscia, angoisse, Angst, anguish…” e che, con
terminologia medica, introduce l’angina pectoris, nella quale l’emozione angosciosa
può generare una ridondanza fisiologica. Lo stesso fenomeno è registrabile
nell’ebraico ove la radice ṣrr che definisce lo spazio ristretto e costretto (Is 28,20;
49,19) genera l’angustia dell’anima afflitta, inquieta e infelice, ṣar (Gen 32,8; Gdc
2,15; 2Sam 1,26; Sal 66,14; 102,3; 106,44; 107,6). Per questo la liberazione è
espressa attraverso la radicale rḥb che denota spazialmente un orizzonte aperto, vasto
e libero (Dt 12,20; Es 3,8; 34,24; Sal 119,45) e che, quindi, può trasformarsi in
simbolo esistenziale di consolazione e salvezza: «Allarga il mio cuore angosciato,
liberami dagli affanni» (Sal 25,17; cf. 119,32; 18,37; Is 60,5).
Se il libro di Giobbe può essere assunto, come un repertorio delle molteplici
iridescenze dell’angoscia, così come lo sono in modo più ridotto le lamentazioni del
Salterio, capitale per la stessa dottrina dell’Incarnazione è l’angoscia che attanaglia
Gesù soprattutto nella sua passione come si evince già nella famosa dichiarazione
della Lettera agli Ebrei: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e
suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte, e per il suo
pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo figlio, imparò l’obbedienza da
ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli
obbediscono» (Eb 5,7-9)15. Prescindendo dalle questioni esegetiche e teologiche
connesse a questo passo (soprattutto per quanto riguarda la “perfezione” raggiunta
attraverso l’“obbedienza”), è indubbio che Cristo è solidale con l’umanità attraverso
la sua sofferenza: è proprio per questa via dolorosa che egli attua e rivela la pienezza
della sua umanità. Un’esperienza così drammatica diventa strumento di formazione: è
interessante la coppia verbale greca épathen/émathen (“patì/imparò”) sulla scia del
famoso binomio pathémata/mathémata (“sofferenze/insegnamenti”), un topos della
letteratura greca, a partire da Esopo16.
Cristo è, dunque, «l’uomo che conosce il soffrire», come il Servo del Signore
(Is 53,3), e la sua esistenza è segnata dal pianto sia per la morte dell’amico Lazzaro,
con la commozione interiore che pervade l’anima (Gv 11,32-38), sia per la sorte della
città amata Gerusalemme (Lc 19,41). Rimane sconvolto di fronte al tradimento di
Giuda (Gv 13,21), sospira di fronte alla malattia (Mc 7,34) e all’ostilità nei suoi
confronti (Mc 8,12), prova sdegno e tristezza insieme davanti alla durezza dei cuori
del suo uditorio (Mc 3,5). Ma l’apice emotivo della sua angoscia è raggiunto nel
Getsemani17, la cui dinamica psicologica è anticipata da Giovanni nell’incontro di
Cristo con gli Ellenisti: «Adesso la mia anima è turbata. Che cosa dirò: Padre,
salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!» (Gv 12,27).
Sullo sfondo dell’angoscia dell’Orto degli Ulivi si addensano il tradimento di Giuda,
il rinnegamento di Pietro, l’indifferenza e l’abbandono dei discepoli, componenti che
provocano lo stato emotivo di Gesù fino al parossismo del sudore di sangue (Lc
22,44) che Luca considera come l’esito di un agôn, di una lotta-agonia interiore.
L’evangelista più attento a registrare le reazioni di Cristo in quella notte è
Marco che segnala altre occasioni di tensione intima già durante il suo ministero
pubblico (ad es. Mc 3,5; 8,12; 10,14). All’ingresso stesso nel Getsemani ove si isola
con Pietro, Giacomo e Giovanni assonnati, Marco nota che «cominciò a
ekthambeîsthai e ademoneîn» (14,33). Il primo è il verbo della paura atterrita ed è
usato solo da questo evangelista in tutto il Nuovo Testamento (cf. Mc 9,15; 16,5.6). È
lo sconcerto di fronte a un’esperienza imprevedibile che sconvolge l’anima; anzi,
nella classicità greca è il verbo del terrore e del tremito dell’agonizzante. Il secondo
verbo, ademoneîn, anch’esso raro nel lessico neotestamentario (altrove è usato solo
nel parallelo di Mt 26,37 e in Fil 2,26), designa l’angoscia, il turbamento, l’ansia.
Uno stato interiore che è confessato dallo stesso Gesù: «La mia anima è triste
(perilypós) fino alla morte» (Mc 14,34; cf. Mt 26,37), parole ispirate all’antifona del
Sal 42-43, già da noi evocata (42,7.12; 43,5) Uno stato emotivo che irradia anche la
preghiera di Gesù, espressa da Marco, prima, in modo indiretto nella sua narrazione:
«Pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora» (14,35) e, poi, in forma
esplicita e personale: «Abba’, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo
calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (14,36). È interessante notare
in questa invocazione la dialettica tra l’angoscia che conduce alla tristezza amara e la
volontà che sovrasta l’emozione, con la decisione di seguire la via dolorosa che salirà
fino alla vetta del Calvario. Emozione, sentimento, passione s’incrociano con la
libertà, la scelta razionale, la decisione volontaria, così come l’estrema desolazione
della supplica si aggrappa all’intimità della paternità divina (“Abba’, Padre!”). È ciò
che accadrà anche nell’invocazione ultima sulla croce ove, come è noto, l’incipit
tragico del Sal 22 pronunciato da Gesù non si esaurisce nella disperazione, perché il
testo salmico finisce con un orizzonte luminoso di liberazione e di gioia e Cristo,
secondo la prassi giudaica, assume in totalità il Salmo attendendo perciò anche una
risposta finale salvifica alla sua veemente implorazione.
L’immagine del calice – che, come è noto, è non di rado simbolo dell’ira e del
giudizio divino e quindi di morte (Sal 75,9; Is 51,17; Lam 4,21; Ab 2,16) – incarna un
destino mortale incombente, che genera tristezza estrema, come appunto confessava
Gesù già prima ai discepoli parlando di una tristezza heós thanátou, “fino alla morte”.
È la stessa situazione di non pochi personaggi biblici che, di fronte a situazioni
disperate o insopportabili invocano la morte: da Mosè (Nm 11,15) a Elia (1Re 19,4),
da Geremia (20,14-18) a Giona (Gio 4,3.8) da Giobbe (Gb 3,3) a Tobia e Sara (Tb
3,6.13). Gesù, però, «non chiede di essere liberato dall’angoscia con la morte, ma di
essere liberato dalla morte. In bocca a lui l’espressione “triste fino alla morte” è una
specie di superlativo per indicare la forma estrema di uno stato d’animo dal quale
vorrebbe essere sollevato… Ma Gesù sceglie di restare fedele come figlio nonostante
la prospettiva di quella morte… Egli dunque affronta la morte con la fiducia e la
libertà del figlio che anche nella morte sa di poter contare sulla sua relazione vitale
col Padre»18.
La tenerezza gelosa di Dio
Se stiamo alla teoria delle strutture dell’immaginario elaborata da Gilbert
Durand19, modellata sulla tipologia somatica della persona umana, oltre alla
dominante “posizionale” verticale ascendente e a quella “copulativa” ciclica del
progresso e del ritorno, si delinea una dominante “digestiva” che suppone il
rannicchiarsi nell’intimità. È in questo ambito che si sviluppano le emozioni più
tenere, affettive, comunionali e possessive. Siamo, così, nell’altro estremo del nostro
aspetto cromatico emozionale ove domina il calore dell’amore. Già abbiamo
introdotto questo particolare aspetto quando abbiamo esaminato l’organo delle
“viscere” (rahamîm) materne e paterne col loro carico di sensazioni intime e dolci o
compassionevoli e misericordiose.
Ora vorremmo fare riferimento a un’emozione più generale che contrassegna il
pianeta dell’amore genuino, la tenerezza, espressa con la citata radice “viscerale”
rḥm, ma anche con una simbologia molto suggestiva. Giustamente lo scrittore tedesco
Heinrich Böll, Nobel 1972, nella sua Lettera a un giovane cattolico (1961) criticava
«i messaggeri del cristianesimo di ogni provenienza» per aver ignorato la tenerezza e
proponeva «una teologia che potesse acquisire la tenerezza e ne usasse il linguaggio
in modo da mettere fuori causa il suo grande antagonista: la mera legislazione
ecclesiastica». Dobbiamo riconoscere che da allora sono stati fatti molti passi con
l’elaborazione di una “teologia della tenerezza” da parte di Carlo Rocchetta20, col
ricorso alla categoria “compassione”, come ha fatto Johann Baptist Metz21 per
esaltare l’empatia cristiana nel pluralismo religioso e culturale, o col tema della
“misericordia” sottolineato da Walter Kasper e soprattutto dal magistero di papa
Francesco22.
Alla base c’è l’immagine paterna: «Come è tenero (rḥm) un padre verso i figli,
così il Signore è tenero (rḥm) verso quelli che lo temono» (Sal 103,13; cf. Os 11,1-4).
Oppure materna: «Voi siete stati portati da me fin dal seno materno (beten), sorretti
fin dal grembo (raḥem)» (Is 46,3; cf. 49,15 e 66,13), per cui la relazione di intimità
col Signore è la stessa di quella del «bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal
131,2). Altre volte, invece, per esprimere questa intimità tenera e dolce si ricorre allo
zoomorfismo dell’uccello che ti «copre con le sue penne», così che «sotto le sue ali
troverai rifugio» (Sal 91,4) o della «chioccia che raccoglie i suoi pulcini sotto le sue
ali» (Mt 23,37; Lc 13,34). O anche si evocano «gli uccelli che volano» sopra il nido
per difenderlo e «così il Signore degli eserciti proteggerà Gerusalemme» (Is 31,5). O
ancora, «come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, [il
Signore] spiegò le sue ali e prese [Israele] e lo sollevò sulle sue ali» (Dt 32,11)23.
Si potrebbe allegare una lunga lista di passi ove, con lessico e con simboli
diversi, si mette in luce il sentimento di tenerezza da parte di Dio verso il suo popolo
ma anche quello del legame fraterno (cf. Sal 133), amicale (cf. 2Sam 1,19-27),
nuziale. In quest’ultimo caso emblematico è tutto il Cantico dei cantici che esalta
ininterrottamente l’abbraccio tra i due protagonisti che vivono l’intera gamma delle
emozioni che i due innamorati sperimentano nella loro intimità profonda, in un
dinamismo emotivo che non si sazia mai: non per nulla la finale è ancora un appello
all’inseguimento amoroso («Fuggi, mio amato, simile a gazzella o a cerbiatto sopra i
monti dei balsami!» Ct 8,14). Analoga è la rilettura che Osea compie della sua
vicenda nuziale la cui crisi profonda potrebbe essere sanata dal ritorno all’abbraccio
nella solitudine esclusiva: «Ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al
suo cuore» (Os 2,16).
Un particolare profilo della tenerezza appassionata può essere anche la
gelosia24 il cui ardore è ben espresso dalla stessa radicale che è alla base del vocabolo
ebraico qin’ah: qnn, infatti denota la tintura rossastra, quindi il rossore che pervade
chi prova passione. Anche il termine greco zêlos (16 volte nel Nuovo Testamento, e
11 il verbo zeloûn) suppone ardore, fervore, desiderio ardente fino appunto a
designare il movimento rivoluzionario degli Zeloti, citati otto volte nel Nuovo
Testamento. È per questo che non di rado alla gelosia si accompagna il simbolo del
fuoco, come appare nel celebre passo del Cantico: «Tenace come lo she’ol è la
gelosia, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina!» (8,6; cf. Dt 4,23-24;
6,14-15; 32,21-22; Zc 8,2; Eb 10,27). Non per nulla anche in alcune lingue
l’innamoramento è chiamato “colpo di fulmine”.
C’è, dunque, nella gelosia un aspetto apparentemente antitetico rispetto alla
tenerezza ed è il possesso esclusivo dell’altro: da un lato, esprime la negatività di una
passione accecante (Pr 27,4; Gb 5,2), capace di condurre alla violenza omicida, come
nel caso di Caino (Gen 4,5-6); d’altro lato, però, esprime l’indissolubile legame che
vincola due persone, un legame ferito dal tradimento. In questa luce si spiega l’ampio
ricorso biblico alla gelosia come categoria teologica anti-idolatrica, al punto tale da
farne il mantello stesso di Dio (Is 59,17; si vedano, ad esempio, Sal 78,57-58; Ez
5,13; 1Cor 10,21-22). Sorgente di questa gelosia divina è l’idolatria tant’è vero che si
conia il lessema “idolo dell’idolatria” (Ez 8,3).
Proprio per il suo collegamento col simbolismo nuziale, la gelosia si rivela
come un altro volto della tenerezza, dell’emozione forte e appassionata che Dio prova
per la sua creatura e, come accade in molte definizioni divine bibliche, questa gelosia
non è solo principio di reazioni di rigetto ma è sorgente di un amore infinito. Per
questo la gelosia divina è descritta attraverso il contrasto simbolico numerico tra le
quattro generazioni nella quali dura l’ira divina e il mille della sua bontà tenera (Es
20,5; 34,6-7). La stessa tenerezza divina appare nella qualità protettiva che la gelosia
assume nei confronti di Israele, quando l’ardore geloso del Signore si scatena contro
gli oppressori creando una sorta di cortina difensiva per le vittime (Na 1,2; Zc 1,14-
17; Sap 5,17). Il Dio, che al Sinai è denominato come “il Geloso” per eccellenza (Es
34,14), sarà il custode del “resto” fedele di Israele sul quale si riverserà la sua
tenerezza efficace e salvatrice (Is 37,31-32). E i fedeli si definiranno proprio
attraverso la loro “gelosia” zelante nei confronti del loro Dio, come si afferma per
Elia (1Re 19,10), per lo stesso Gesù (Gv 2,16-17) e per l’apostolo Paolo (2Cor 7,7.12;
11,2).
Quattro movimenti analitici
Questo breve saggio che abbiamo dedicato a un’embrionale teologia delle
emozioni è retto da una convinzione che, per altro, domina anche nel campo
psicologico, scientifico e culturale in genere: la categoria “emozionale” è di sua
natura così mobile e fluida da non essere comprimibile in una definizione e, quindi,
in un’analisi rigorosa. Ciò non toglie che la Bibbia sia attraversata da molteplici fili
emotivi che confermano non solo l’incarnazione della Parola di Dio ma anche la
qualità simbolica e analogica della teologia (nel senso di discorso su Dio) offerta
dalle Scritture. È ciò che abbiamo segnalato nel primo movimento della nostra
analisi quando abbiamo delineato una sorta di sguardo panoramico sui testi sacri.
Abbiamo poi tentato una riduzione di prospettiva cercando, in un secondo
movimento, di individuare una piccola “grammatica” del sentire emozionale biblico
che si fonda su un’antropologia e quindi su una gnoseologia unitaria. Essa non vuole
separare il conoscere intellettivo da quello affettivo, intrecciandoli tra loro pur nella
diversità degli approcci. Da qui procede il rilievo che viene assegnato all’emotività o,
se si vuole, alle ragioni del cuore. A questo punto abbiamo individuato un perimetro
emozionale specifico connesso ma distinto dalla passione, quest’ultima da
considerare come un habitus permanente generato e alimentato dalle emozioni. Il
motore dell’esperienza emotiva nella sua pienezza è da cercare nel desiderio coi suoi
due volti, il luminoso e positivo ma anche l’oscuro e negativo. Certo, in questa
“grammatica” emozionale semplificata si sarebbero potute adottare articolazioni in
ulteriori capitoli differenti come si ha in molti manuali psicologici: le esperienze
soggettive o sentimenti, i comportamenti espressivi delle emozioni provate, i
mutamenti corporei generati dalle emozioni e così via. Il discorso, però, si sarebbe
disperso in un vero e proprio trattato generale dei sentimenti.
Il terzo movimento del nostro itinerario ha puntato su alcuni “organi”
produttori di emozione, assunti nella loro valenza simbolico-emotiva: il cuore, le
viscere, i reni, il naso e il fegato. Si aveva, così, la conferma basica dell’unitarietà
psico-somatica dell’antropologia biblica. In un quarto movimento abbiamo voluto
selezionare emblematicamente una tipologia emotiva. Abbiamo, così, optato per i due
estremi dell’angoscia e della tenerezza, esperienza fredda e lacerante la prima,
calorosa e ardente la seconda. Per certi versi esse si accompagnano ai due registri
fondamentali della preghiera non solo biblica: da un lato, la supplica-lamentazione e,
d’altro lato, l’inno e il ringraziamento, ossia l’implorazione sofferta e la lode festosa.
In altro modo potremmo concludere affermando che le emozioni riflettono le
contraddizioni dell’esperienza storica e l’anelito verso la pienezza escatologica ove
«non ci sarà più morte né lutto né lamento né affanno» (Ap 21,4) perché si avrà
l’intimità divina in tutta la sua gloriosa e luminosa pienezza: «Egli abiterà con loro ed
essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio» (Ap 21,3) perché
«Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28).
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