francescanesimo

Cardini: la concezione francescana di povertà e lavoro

Franco Cardini Pixabay
Pubblicato il 10-05-2019

I fratres minores sono tenuti a sostentarsi con il lavoro umile e manuale

La concezione francescana di povertà è estremamente rigorosa: collega la mendicità – uno degli aspetti della vita penitenziale – a un deciso rifiuto tanto dell’accattonaggio ozioso, ch’era diffuso tra i girovaghi e i falsi pellegrini, quanto della richiesta e dell’accettazione di denaro. I fratres minores sono tenuti a sostentarsi con il lavoro umile e manuale, il valore del quale non deve tuttavia essere quantificato in danaro. A fronte del loro lavoro, i frati dovranno chiedere solo di che sostenersi, vale a dire del cibo: e non dovranno insistere in caso di rifiuto.

È quanto si legge nel testo della Regola che fu presentata al Capitolo del 1221 e ch’è detta non bullata in quanto papa Onorio III non la ricevette mai e non poté quindi formalmente approvarla. La Fraternitas minore – che nelle successive bolle Cum dilecti dell’11 giugno 1218 e Pro dilectis del 29 giugno 1220 il Papa definiva ormai, rispettivamente, Religio e Ordo – discusse a fondo, e con passione, quel primo testo, dal Padre presentato alfine al Pontefice che lo confermò con la bolla Solet annuere del 29 novembre 1223.

Il Capitolo VII della Regola del 1221, “Del modo di servire e di lavorare”, è estremamente chiaro: il frate minore, quando è chiamato al servizio e al lavoro, non deve accettare alcuna mansione direttiva o gestionale, bensì lavorare secondo le sue competenze e possibilità ricevendone in cambio quanto serve alle sue necessità, ma non denaro; se poi è necessario, il lavoro non lo esime dal mendicare come gli altri. Il denaro può servire esclusivamente “per una manifesta necessità dei frati infermi”, ma ad esso non va attribuita “maggiore utilità che ai sassi”.

Il testo del ’21 venne notevolmente corretto e mitigato nel ’23: dove ai capitoli IV-VI si prescrive il divieto ai frati di ricevere denaro rimettendo tuttavia il giudizio definitivo per casi particolari ai “ministri” e ai “custodi”, si conferma la liceità del ricevere in compenso al lavoro “le cose necessarie al corpo” eccetto il denaro e si prescrive che vadano per l’elemosina con fiducia e senza vergogna seguendo “l’altissima povertà”.

Il lavoro. Pur ritraendosi progressivamente in disparte da allora in poi rispetto alla guida dell’Ordine, Francesco non venne mai meno al principio dell’obbligo del lavoro e del divieto di un suo compenso pecuniario. Così egli scrive nel Testamento del 1226, redatto probabilmente nell’estate, poche settimane prima del Transito. Si tratta di poche parole pronunziate nel suo volgare e tradotte da chi lo circondava in un lati- no semplice e piano che forse la traduzione moderna rende con sufficiente fedeltà ed efficacia: “E io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all’onestà. Coloro che non sanno imparino, non per cupidigia di riceverne ricompensa, ma per dare l’esempio e tener lontano l’ozio. Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore chiedendo l’elemosina di porta in porta”.

Povertà e umiltà trovano qui il loro punto d’incontro nella rinunzia a qualunque pretesa di ricevere una sia pur giusta ricompensa al proprio lavoro e nella raccomandazione del ricorso all’elemosina.

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