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Intervento del Prof. Franco Cardini, storico e scrittore

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001



Francesco e l'unità d'Italia. Parliamone con chiarezza, senza falsi pudori. C'entrano qualcosa? Cominciamo col far piazza pulita degli equivoci. La retorica e la “caccia ai meriti patriottici” non servono a nulla. Inutile tirare in ballo le benemerenze civili, patriottiche e umanitarie dell'Ordine, il contributo di sangue dei francescani come cappellani militari alle guerre combattute dalla nazione, l'importanza di fi gure come Agostino Gemelli nella vita sociale e culturale italiana, la quasi unanime simpatia che circonda chiunque porti il saio bruno o nero (e che non certo condivisa per quel che riguarda altri settori della Chiesa cattolica) e magari perfi no garibaldini presenti fra le milizie di Garibaldi. Non sviamo il discorso. La retorica del 150° non deve mai farci perdere di vista il dato fondamentale dalla consapevolezza del quale è necessario partire se non vogliamo impostare il discorso su un piano bugiardo e sbagliato: il cosiddetto “Risorgimento” e il “processo di unità nazionale” che condusse un paese cattolico e a struttura storica eminentemente policentrica e municipalistica a divenire uno stato centralizzato a struttura giacobino-bonapartista, lontana dalla sua storia e dalle sue tradizioni, e ad assumere una veste giuridica e politica laicista, anticlericale e anticattolica. Finger di aver dimenticato questo dato obiettivo ci condurrebbe a falsare qualunque tipo di ulteriore discorso. Francesco è imitatio Christi, è povertà, è amore: ma è anche fedeltà alla Chiesa sempre e comunque, a qualunque costo, specie quando ciò costa caro.

L'umile Italia autentica e profonda
Ma proprio questo è il punto. Francesco, la sua vita, la lingua ch'egli parlava, gli scritti in idioma volgare che ci ha lasciato, la sua predicazione di pace, il suo contatto con le radici profonde cui attingevano le tradizioni delle genti con cui prendeva contatto: tutto ciò, e molto altro ancora, prova che egli fosse un rappresentante perfetto di quella che Dante chiamò la “umile Italia”, l'Italia autentica e profonda. Se lo stato laicista e unitarista italiano si costruì contro i valori autenticamente cattolici e popolari delle genti italiche, se il “fare gli italiani” del Risorgimento e dell'Italietta equivalse alla costruzione di una coscienza civica ispirata a valori lontani dal cristianesimo cattolico e di una compagine istituzionale e sociale fondata sulla spoliazioni sistematica dei diritti, delle prerogative e dei beni della Chiesa, va da sé che tra Francesco e quella Italia non avrebbe potuto mai instaurarsi alcun rapporto che non fosse confl ittuale. Ma Francesco restava una presenza inaggirabile. Non c'è dubbio ch'egli sia stato il primo grande poeta a servirsi di un idioma volgare italico per comporre un capolavoro della poesia di tutti i tempi, il Cantico delle creature. Non c'è dubbio che Dante, facendone per bocca di san Tommaso d'Aquino l'elogio nel canto XI del Paradiso, ha fornito l'Italia – di cui la Commedia è il poema nazionale – di un solido e irrinunciabile paradigma di santità. Non è importante polemizzare a proposito della paternità della celebre defi nizione “il più santo degli italiani, il più italiano dei santi”, o mostrar imbarazzo perché tale defi nizione si debba attribuire a Benito Mussolini. D'altronde, non c'è dubbio che l'ateo e anticlericale Mussolini – dopo aver inquadrato la questione sociale mediante la “Carta del Lavoro” del '26 e aver così avviato la lotta contro la piaga dell'emigrazione che si espresse con al stagione delle grandi bonifi che e delle grandi opere sociali – si rese conto che quella “nazionalizzazione delle masse” necessaria per compiere sul serio il Risorgimento in cui egli stesso credeva, il “fare gli italiani”, dovesse per forza passare attraverso la conciliazione fra stato e Chiesa, che in profondo signifi cava recidere il nodo etico che rendeva schizofrenici gli italiani, lacerati tra obbedienza allo stato e fedeltà alla Chiesa. È importante che il grande passo si sia realizzato all'ombra della proclamazione di due patroni d'Italia, un uomo e una donna, un francescano e una domenicana, due grandi fondatori dell'idioma italico in altrettanti variabili “volgari”: Francesco d'Assisi e Caterina da Siena. Anche sotto il profi lo linguistico, alla soluzione unitaria risorgimentale che col Manzoni proclamava il “fi orentino colto” defi nitivo idioma della patria, il regime – che pur insisteva su quel canone linguistico unifi catore come fattore di unità anche politica e faceva la guerra ai dialetti – rispondeva proponendo modelli letterari che, al contrario, richiamavano obiettivamente in campo le variabili dialettali come parte della realtà storica italiana concreta. Attraverso il modello costituito da Francesco in quanto patrono d'Italia, le virtù francescane venivano coscientemente proposte ai cittadini, soprattutto ai giovani. La ricostruzione “medievale” di Assisi programmata dal podestà Arnaldo Fortini, francescanista e devoto di Francesco, veniva in questo contesto ad assurgere a simbolo di una “Italia ideale” radicata nelle antiche libertà e nella fede cattolica. Era una correzione di rotta, rispetto al Risorgimento frutto del quale era stata la blasfema costruzione del neopagano Altare della Patria in Roma per la quale l'Italietta umbertina aveva distrutto proprio parte del convento francescano dell'Ara Coeli. In quanto patrono d'Italia, Francesco è il protagonista di questa tensione, di questi due modi contrapposti anche se conviventi d'intendere la storia e le tradizioni del nostro paese. Di ciò, è necessario al di là di qualunque polemica essere profondamente consapevoli.

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