Intervento del Prof. Felice Accrocca, storico e scrittore
San Francesco e l'Italia: non è un rapporto facile da illustrare, perché l'Italia come unica entità politica era – allora
– lungi ancora a venire. Il Santo visse in una piccola città che costituiva la punta del ducato imperiale di Spoleto,
quasi ai confi ni con Perugia che, con molta parte del territorio umbro, era invece sotto la sfera di infl uenza della
Chiesa. È vero però che Francesco percorse molte terre di questa nostra Italia, recandosi a piedi o sull'asino – quando la
salute cominciò rapidamente a declinare – anche nelle zone più impervie e isolate, in quegli eremi che egli tanto amava,
nei quali s'incontrava con Dio, immergendo nel silenzio il corpo e lo spirito.
Italia francescana
Sono otto secoli che il Santo di Assisi ha dato inizio alla sua avventura e da otto secoli egli imprime – in modo marcato
– la sua impronta sulla nostra terra, fi n quasi a consentirci di parlare (ovviamente, con tutte le cautele del caso) di
una ‘Italia francescana'. Certo, nel rifl ettere su questa storia straordinaria tornano spontanee le domande dello sconcertato
frate Masseo, il quale “dimorando una volta nel luogo della Porziuncola, volle provare come fosse umile santo Francesco, e fecesegli incontro e, quasi
proverbiando, disse: «Perché a te, Francesco?. Dico, perché a te tutto il mondo ti va dietro e ogni persona pare che desideri di vederti e d'ubidirti? Tu non se'
bello uomo del corpo, tu non se' di grande scienzia, tu non se' nobile. Dunque, donde a te che tutto il mondo ti venga così dietro?»” (Fioretti, cap. 10: FF
1838). Ma forse la gente gli correva dietro, pur non rispondendo egli a quegli standard dell'apparire che sempre hanno
tanta presa, ieri come oggi, perché era un altro il suo fascino, proveniente da quel Mistero nel quale si era immerso e del
quale era ripieno.
Certo, Francesco è una fi gura straordinaria, sempre attuale, perché il Vangelo al quale egli – da un certo momento
in poi – conformò la propria vita supera la barriera del tempo, giungendo dritto al cuore dell'uomo di tutti i tempi.
Anzitutto mi viene da pensare al suo rapporto con i giovani: egli fu giovane gaudente (alla fi ne della vita giudicherà la
sua esistenza giovanile come un essere “nei peccati”), amico di allegre brigate di giovani ricchi, sazi della vita, che perciò
avevano forse bisogno di fare qualche stranezza per divertirsi. Non troppo diverso, in fondo, da tanti dei nostri giovani,
pur di buona famiglia, pur bravi ragazzi, che per combattere la noia hanno comunque bisogno di un qualche diversivo
e di una qualche evasione. Poi la sua vita cambiò! Scelse di mettere Dio al primo posto e i suoi occhi cominciarono ad
aprirsi al mondo, agli altri, ai problemi più veri della gente. E se prima gli sembrava cosa “troppo amara vedere i lebbrosi”, poi fi nì per immergersi nel loro dolore e dal dolore uomini giunse infi ne al Cristo crocifi sso, che gli svelò il senso più vero
di ogni dolore umano. Dall'egoismo alla solidarietà: fu questo il suo percorso, che resta un itinerario sempre valido e
sempre proponibile, perché i giovani, in fondo, desiderano fare qualcosa di bello e di grande per uscire dalla mediocrità
che sovente viene loro proposta. Vorrebbero, forse inconsciamente, fare della propria vita un dono, anche se non sempre
trovano negli adulti i maestri adatti a guidarli su questo sentiero.
Ai giovani, Francesco chiese autenticità, bollando con icastiche espressioni ogni tentativo di compromesso. Esigente con
se stesso, poteva permettersi di esserlo anche con gli altri, perciò non faceva sconti a nessuno. Come quella volta in cui uno
gli chiese di poter entrare nell'Ordine: “Se ti vuoi unire ai poveri di Dio – gli rispose Francesco – distribuisci prima i tuoi beni ai poveri del mondo”.
Quegli però se ne andò e, invece di distribuirli ai poveri, dette i suoi averi ai parenti. Avendo poi riferito al Santo come si era
comportato, si sentì dire senza mezzi termini: “Va per la tua strada, frate mosca, perché non sei ancora uscito dalla tua casa e dalla tua parentela.
Ai tuoi consanguinei hai dato i tuoi beni, ed hai defraudato i poveri: non sei degno dei poveri servi di Dio” (Tommaso da Celano, Vita seconda 81: FF
668). Un'altra volta, invece, incontrando in un luogo un frate che non voleva andare per la questua, ma a tavola mangiava per
quattro, lo riprese con tono mordace: “Va' per la tua strada, frate mosca, perché vuoi mangiare il sudore dei tuoi fratelli e rimanere ozioso nell'opera
di Dio. Ti rassomigli a frate fuco, che lascia lavorare le api, ma vuole essere il primo a mangiare il miele” (ibidem 75: FF 663).
È su questi valori di solidarietà e di autenticità che cresce e si approfondisce l'unità di un popolo. Ai giovani impegnati
nella scuola, dai più piccoli fi no agli universitari, Francesco insegna infi ne il rispetto per i libri, per la cultura. Lui che si
defi nì semplice ed illetterato, studiò tuttavia da bambino nella scuola presso la chiesa di San Giorgio, la chiesa dove per
un certo tempo riposarono le sue spoglie mortali, ancor prima che venisse edifi cata quella stupenda basilica in suo onore
che da secoli si erge maestosa sul Colle del Paradiso. A frate Antonio, quel famoso Antonio di Padova che fu suo discepolo
nella vita e nella santità, scrisse espressamente: “Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione tu non estingua
lo spirito dell'orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola” (FF 252). Nel suo Testamento intimò ai frati: “E tutti i teologi e quelli che
amministrano le santissime parole divine, dobbiamo onorarli e venerarli come coloro che ci amministrano lo spirito e la vita” (Testamento 13: FF 115).
Francesco non era dunque contrario a che i suoi frati studiassero e apprendessero, anche se aveva un terribile timore
che i frati potessero fare della scienza uno strumento di potere, un'occasione per prevalere sugli altri, anche sugli stessi
fratelli di comunità. Egli desiderava invece che lo studio plasmasse la vita, perché essa corrispondesse in pieno al progetto
di Dio. Basterebbe, d'altronde, per rendersene conto, rifl ettere a quanti e quanto profondi insegnamenti si traggono da
quel testo poetico che è indubbiamente suo, tutto suo, che tutti hanno studiato o studiano a scuola, perché solitamente è
tra i brani che aprono le nostre antologie di letteratura italiana. Mi riferisco – ovviamente – al notissimo Cantico di frate sole, che fa di Francesco uno dei primi e più noti autori della nostra letteratura, nel quale egli loda Dio e invita il mondo e tutte
le creature a lodarlo. Un canto di arte e di fede, del quale Francesco aveva composto anche la musica perché si cantasse,
nel quale egli ebbe il coraggio di chiamare la morte sorella, restituendole in tal modo cittadinanza nel proprio universo
interiore; quella “sora nostra Morte corporale” che l'uomo spesso emargina e rimuove dal proprio orizzonte, perché non ha per
essa alcuna risposta, ma “da la quale nullu homo vivente po' skappare” (Cantico 12: FF 263).
Francesco, allora, ha tanto da insegnare a questa nostra Italia, che l'ha ricevuto in dono – insieme a santa Caterina da
Siena – quale suo patrono. Questa Italia che amerei veder crescere insieme, unita nel reciproco rispetto e nella concordia,
solidale. Essa vi riuscirà tanto più quanto saprà seguire, nella quotidianità delle scelte, nelle piccole o grandi decisioni,
l'esempio del suo santo patrono. Un progetto grandioso, certo, al quale ognuno di noi potrà e dovrà dare il proprio contributo;
un contributo che sarà più autentico e vero nella misura in cui si sforzerà di fare proprie le parole del Santo: Dove è carità e sapienza,
ivi non è timore né ignoranza.
Dove è pazienza e umiltà,
ivi non è ira né turbamento.
Dove è povertà con letizia,
ivi non è cupidigia né avarizia.
Dove è quiete e meditazione,
ivi non è affanno né dissipazione.
Dove è il timore del Signore a custodire la sua casa,
ivi il nemico non può trovare via d'entrata.
Dove è misericordia e discrezione,
ivi non è superfl uità né durezza
(Ammonizione XXVII: FF 177)
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