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Domenico Iannacone: Il giornalismo che guarda all’anima

Elisabetta Reguitti
Pubblicato il 17-06-2022

“Che ci faccio qui” il programma di Domenico Iannacone dà voce a tante storie troppo silenziose

Domenico Iannacone si è “salvato” dalla televisione; sembra un controsenso, tanto più se scritto al termine della nuova – la quinta – edizione del suo Che ci faccio qui, eppure così è. Il come e il perché lo spiega in questa conversazione in cui ripercorre il viaggio delle vite ascoltate a raccontare, delle storie incontrate ma anche e in parte di se stesso oggi al giro di boa dei 60 anni. 

 

Da I 10 comandamenti a Che ci faccio qui: senza punto esclamativo o di domanda (come sottolinea lo stesso giornalista e autore). Dopo 10 anni – la prima edizione fu nel 2013 – cosa è rimasto immutato e cosa è cambiato? 

 

È emersa l’esigenza di portare la produzione all’esterno, andare in tutte le direzioni rispetto alla struttura predefinita di quelle che sono state chiamate “inchieste morali” che avevano caratterizzato I 10 comandamenti. Volevo aprirmi completamente alla società e al suo magma che continua a creare in me una persistente stupefazione. Ho sempre più l’impressione di essere testimone di uno spiazzamento che chiede di essere raccontato.

 

Come si diventa autorevoli nell’epoca del giornalismo rapace? 

 

Il mio approccio verso gli altri non è mai quello di chi deve prendere qualcosa. Non ho mai avuto resistenza dalle persone che incontro. Non si sentono minacciate o giudicate. Il mio approccio verso gli altri è sempre rispettoso e questo mi consente di ricevere delle cose incredibili. La prima, in assoluto, è la loro fiducia. Con me dimenticano di avere di fronte un giornalista e si lasciano condurre. Si instaura un rapporto istintivo a volte fatto anche solo di sguardi. Sul piano tecnico in questa edizione non è stato buttato neppure un “frame”; nonostante non avessi fatto sopralluoghi tutto è diventato puntata. Che ci faccio qui è un mio format, con produzione esterna. È un lavoro di grande concentrazione e dispendio di energie fisiche oltre che mentali tenuto conto delle molte problematiche operative da risolvere. Sono un rigoroso, pretendo moltissimo da me stesso e cerco di non essere fallace. 

 

Oltre alle cinque puntate di questa edizione, terminata a maggio, ora è immerso anche nella modalità “podcast” con il Sillabario delle emozioni fatto di parole, musiche e pause che sempre caratterizzano il suo stile. 

 

Il podcast è un mezzo che oltre alle singole storie mi permette di raccontare me stesso. La cosa più bella è come io mi senta completamente compreso da chi mi segue. Le persone riconoscono il mio modo di essere esattamente questo giornalista. Lo percepisco dai commenti sui social o dalle persone che per strada mi dicono “grazie per quello che fai”. Tutto ciò va oltre la notorietà o l’essere personaggio che ha visibilità attraverso la televisione. 

 

In 20 anni è stato caporedattore, autore e inviato di programmi televisivi di inchiesta eppure afferma di essersi “salvato dalla televisione”. 

 

Lo spiego in uno dei miei podcast: ero in Veneto per una serie di servizi e proprio il giorno in cui sarei dovuto rientrare in redazione a Roma ho fatto l’incontro che ha cambiato il mio modo di essere, e soprattutto fare, il giornalista. Seduta a terra contro la colonna della stazione ferroviaria c’era una ragazza che chiedeva l’elemosina. Mi sono avvicinato per parlarle; l’operatore ha ripreso quei minuti trascorsi insieme che volevo diventassero la chiusura di uno dei servizi. Non fu così perché decisero di tagliare proprio quelle sequenze di immagini. Esattamente allora compresi che non volevo fare parte di quella televisione che stava negando la possibilità di raccontare - attraverso quella storia la verità. Ho sentito che non volevo essere manipolato da quella tv che sentivo non mi rappresentava; ne ho preso quindi le distanze. Questo mi ha salvato. L’incontro e la breve conversazione con quella ragazza, la sua domanda “ti sto dando fastidio?” è stato il mio nuovo inizio. Non volevo essere uno strumento, un ingranaggio. Ho scelto il rischio di non avere la certezza di alcun contratto e quindi del mio futuro professionale. È stato il momento in cui ho detto “no. Non voglio farlo, voglio che il mio giornalismo sia vivo, composto da storie con un reagente”. A distanza di anni ho la certezza di aver fatto la scelta giusta. 



Quali sono stati i riferimenti-maestri professionali? 

 

Sono arrivato a Roma per dissenso familiare e mi sono mantenuto da solo facendo il cameriere e il lavapiatti, lavorando ai mercati generali cercando però di nutrirmi leggendo periodici e giornali, di avvicinarmi a poeti che studiavo nel mio piccolo paese del Molise. La mia formazione culturale è sicuramente stata influenzata da figure fondamentali come Amelia Rosselli grazie alla quale ho imparato a vivere una dimensione profondissima rispetto al significato delle parole. Sono stato anche fortemente suggestionato dal cinema di maestri come Luigi Comencini o Ugo Gregoretti. Oggi a 60 anni vivo e comprendo come il cinema e la poesia siano stati il magma dal quale è emerso il mio modo di raccontare



Un rapporto speciale anche quello con Andrea Camilleri. 

 

È stata una grande amicizia un rapporto come tra padre e figlio durato anni. La cosa bella di questo legame è che insieme parlavamo di tutto; lui esprimeva vitalità e chiarezza di pensiero anche nell’ultimo periodo. Anche senza vista riusciva sempre a guardare oltre. Tutto ciò mi manca tantissimo. Il nostro saluto era “ti voglio bene”. 



Hanno scritto del suo giornalismo: “È fermarsi, chinarsi e raccogliere lo sguardo dell’anima senza farlo pesare”. In questo tempo riesce a trovare anche la speranza? 

 

Sì, tanto più nelle situazioni in cui sembra cancellata. Le storie che racconto, facendole mie non si perdono, mi restano dentro. Tornare a raccontarle dopo anni è un po’ come tornare a cercare me stesso. Lo è stato, ad esempio, con Ti voglio amare in cui incontravo gli allora bambini di Borgo Vecchio - quartiere poverissimo a due passi dalla Palermo “bene” - ritrovati ormai adulti e padri in questa edizione con Ti voglio amare ancora. Oppure ancora con la storia di Pierpaolo Martino - ne La Cura, ragazzo con la sindrome down che per anni si è preso cura dell’anziana madre malata di Alzheimer. Anche in questa edizione sono tornato da lui quasi per chiudere il cerchio; l’anziana madre nel frattempo è morta ma Pierpaolo non è rimasto solo perché sua sorella ha deciso di tornare ad abitare con lui per occuparsene e, appunto, prendersene cura. 

 

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