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Quando la Musica diviene fratellanza e solidarietà

Antonio Tarallo
Pubblicato il 27-06-2019

Nel quartiere romano della Garbatella è andato in scena il camper girovago del Teatro dell’Opera di Roma

Lo striscione, eccolo, ben visibile, campeggia dalle finestre di un palazzo occupato da tempo da immigrati e italiani senza casa. Le parole che vi sono scritte sopra – “Io ricco non sono, ma il cuore ti dono! Un grazie grande come una casa a chi diffonde bellezza e dignità” – sembrano essere la giusta cornice per l’atmosfera di amore (non viene altro termine) e fratellanza (anche in questo caso solamente il termine “fratellanza” pare adeguato) che ha avvolto, martedì sera, uno dei quartieri più popolari della Capitale, la Garbatella.

La famosa Garbatella, quella – per intenderci – del motorino del film “Caro diario” di Moretti, la Garbatella dei cosiddetti “Alberghi rossi” (palazzi nati, come case popolari, durante il Ventennio fascista, che conservano un delicato stile architettonico che ricorda molto gli alberghi neoliberty di fine ‘800), la Garbatella dei “Cesaroni”, la serie televisiva che ha spopolato da Nord a Sud, unendo lo Stivale in una inusuale neodemocraticità popolare, degna delle lezioni televisive del “maestro della tv” degli anni ’50,  Alberto Manzi.

Proprio in questo contesto popolare, il camper girovago del Teatro dell’Opera di Roma – l’evento è curato dalla “Fabbrica Young Artist Program”, la fucina dei talenti musicali del futuro – ha regalato un “Barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini, davvero particolare. Ma, soprattutto in un periodo sociale così delicato come quello che stiamo vivendo, la serata di martedì, ha ricordato un “qualcosa” che troppo spesso viene dimenticato: il Teatro – in ogni sua espressione, e l’opera lirica è sintesi perfetta di diverse arti teatrali – oltre a dare il fondamentale “cibo” all’anima, riesce con la sua forza comunicativa, con la sua intrinseca origine “democratica” (nasce nella polis greca, come collante fra i cittadini), ad abbattere gli steccati, a non “dividere” gli Uomini in “bianchi” e “neri”, in “poveri” e “ricchi” o in altre irragionevoli divisioni o catalogazioni che vanno contro la semplice appartenenza alla “famiglia umana”. Il Teatro unisce, l’Arte rende veramente tutti fratelli.

In piazza Attilio Pecile – questo il nome della piazzetta romana dove si è svolto l’evento – si è potuto assistere a uno spettacolo ben curato, ricco di brillanti e riuscite idee sceniche del regista Fabio Cherstich, accompagnate dalle innovative scene, costumi e video di Gianluigi Toccafondo. Doveroso, a questo punto, far menzione della locandina: una frizzante Rosina di Sara Rocchi (bella estensione vocale); rotondo il Bartolo di Carlo Feola; interessante ed equilibrato il Figaro di Timofei Baranov; simpatico e gustoso il Basilio di Akaki Ioseliani; un Conte d’Almaviva, leggero ma al contempo presente, interpretato da Murat Can Güvem (finalmente una fine coloratura per il Conte d’Almaviva), e assai divertente la Berta di Valeria Almerighi. La giovane orchestra ha dato alla partitura un’aurea di “fiaba”, potremmo definirla così, grazie ad una equilibrata sonorità, a dei risaltati colori (soprattutto nei fiati e nelle percussioni) che, con la riuscita regia, hanno creato una sorta di partitura “drammaturgica”, il famoso “spettacolo totale” dell’Opera. Carlo Donadio sul podio, dal polso fermo, ma gentile.

Questa la descrizione – seppur in breve – dello spettacolo che si è svolto sulle tavole del palcoscenico, o meglio, del “camper” del Teatro dell’Opera. Ma un altro spettacolo, direi “umano” soprattutto, ha interessato la piazza. La palazzina di fronte all’improvvisato palcoscenico è occupata – da tempo – da immigrati (per la maggior parte di colore) e da italiani senza casa, che convivono insieme le giornate, sempre un po’ uguali, fatte di problemi quotidiani, di spese da affrontare, chissà quanto colme della tipica domanda del “come vado avanti a fine mese”. Almeno per una sera, grazie a questo Barbiere, gli inquilini della palazzina sono riusciti a vivereun momento magico che difficilmente sarà dimenticato. E tutti hanno voluto realmente, concretamente rendere il loro “grazie” al Teatro dell’Opera: “Un grazie grande come una casa a chi diffonde bellezza e dignità”.

In tempi in cui la gratitudine è divenuta “cosa rara”, quelle parole scritte a lettere cubitali, hanno senso profondo. È stato bello vedere come le stanze e gli atri del palazzo occupato, siano divenuti veri e propri camerini, con bauli e trucchi, con tutto quell’immaginario che fa parte del teatro d’Opera. Una sorta di “favola” fuori la scena, oltre a quella fra le quinte rossiniane, in una mirabile unione fra pubblico e artisti. E se le sedie per il pubblico, già a trenta minuti dello spettacolo cominciavano a scarseggiare, ecco fuoriuscire magicamente dalla palazzina, panche e sedie, portate dagli inquilini del palazzo occupato. Sembrava di assistere a un cambio di scena “a vista”, degno del miglior Strehler: paggi e paggetti, escono dalle quinte, e sistemano le sedie per accogliere il maggior numero di pubblico.

Il tutto in un unico respiro fraterno, in una solidarietà che al giorno d’oggi fa rimanere senza fiato, o meglio, fa battere il cuore. Perché davanti alla Bellezza, l’animo così si comporta. E’ stato affascinante vedere i bambini giocare fra loro, sotto le melodie rossiniane. Famiglie di svariati “colori”, vivere il famoso “crescendo rossiniano” in sorrisi e atti di solidarietà che diventano ancor più importanti in un panorama sociale che ci sta abituando a vedere nel prossimo “il nemico”.

Rossini è riuscito – a distanza di secoli – ad andare nuovamente “controcorrente”: è l’immortalità della Musica. E se Figaro, sul palcoscenico, canta nel finale “Io smorzo la lanterna”, un’altra luce si è accesa tra il pubblico: la speranza di dare un segno vivo che la solidarietà e l’inclusione sono possibili, se si vuole. Guardando a tutto questo, non possono che venirci in mente i versi del Barbiere, che divengono davvero un invito un po’ per tutti: Di sì felice innesto, serbiam memoria eterna.


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