cronaca

La nuova normalità post pandemia

Juan Luis Cebrian Ansa - Bienvenido Velasco
Pubblicato il 09-07-2020

Due sfide globali per il futuro dell'umanità: la società digitale e i cambiamenti climatici

Man mano che passa il tempo, da quando è cominciato il cosiddetto ritorno alla nuova normalità, in molti Paesi che hanno rimosso le misure eccezionali adottate per far fronte al Covid 19 si diffonde l'impressione che i danni economici generati dalla pandemia saranno più profondi e duraturi di quelli che inizialmente si immaginava. Il collasso della struttura produttiva è una cosa a cui non sarà facile porre rimedio e molti temono che se dovessero esserci nuove ondate di infezioni alla fine dell'anno una seconda frenata dell'economia potrebbe generare un'autentica catastrofe.

Questa in cui siamo immersi è l'unica vera pandemia - di dimensioni mondiali quindi - nella storia dell'Umanità. Quella che abbiamo di fronte più che una crisi è un vero e proprio cambio di civiltà, di proporzioni pari se non maggiori a quello che diede vita all'era moderna, dopo l'invenzione della stampa. Il processo era cominciato anni prima che il coronavirus si estendesse come la peste del XXI secolo, ma il morbo è servito ad accelerare la sua marcia e a confermare le sue caratteristiche.

La crisi finanziaria del 2008 è stata un'anticipazione di quello che stava per piombarci addosso, e le successive reazioni di molti regimi politici avevano già alimentato i comportamenti difensivi di fronte al cambiamento. Il protezionismo, il nazionalismo, le guerre commerciali e la polarizzazione politica erano segnali del declino del sistema e della sua incapacità di far fronte all'era del mondo che ora sta iniziando.

La nuova normalità ci conferma che quelle tendenze si sono ingigantite dopo questi mesi di confinamento e distanziamento sociale, termine che illustra meglio di qualunque altro la sensazione di solitudine che ottunde la coscienza dei cittadini.

Di fronte all'assalto del virus, le prime reazioni dei dirigenti di quasi tutto il Pianeta sono state improntate a una sorta di «si salvi chi può»: sono state adottate immediatamente misure per la protezione esclusiva dei cittadini di ogni Paese, disprezzando o dimenticando proprio quelli dei Paesi vicini. Perfino in Europa nazioni come Germania, Francia o Austria si sono affrettate a chiudere le loro frontiere, distruggendo con un tratto di penna gli accordi di Schengen e senza consultare né avvisare il resto dei membri dell'Unione.

Il prolungamento del confinamento e la constatazione del pericolo comune hanno spinto poi sia la Commissione europea che il Consiglio europeo a correggere il tiro, ed è giusto riconoscere che le misure di politica monetaria adottate per l'iniezione di liquidità e il salvataggio delle imprese rappresentano uno sforzo encomiabile, senza il quale le economie del Sud Europa non potrebbero affrontare la situazione. Il progetto europeo non è mai stato così a rischio come ora, ma al contempo non è mai stato riaffermato con tanta forza come adesso. I

Il futuro del continente dipende, in definitiva, dal comportamento dei Paesi chiave e va sottolineato che il ruolo che stanno giocando a questo riguardo Emmanuel Macron e Angela Merkel, senza preoccuparsi del prezzo che potrebbero pagare in termini elettorali, come si è visto nelle recenti municipali francesi. Ma se l'iniziale immobilismo europeo, bene o male e con difficoltà, alla fine è stato corretto, non si può dire lo stesso per altre istituzioni cruciali per il futuro della geopolitica e delle relazioni internazionali. Il G20, che in occasione della crisi del 2008 reagì in modo pronto ed efficace, in pratica brilla per la sua assenza in queste circostanze, e nulla sembra indicare che riuscirà a correggere la rotta.

La debolezza del sistema delle Nazioni Unite, la sua stessa incapacità di operare la riforma tante volte sollecitata dai suoi segretari generali, la sua burocratizzazione e la sua sudditanza nei confronti delle decisioni di Paesi minori da cui dipende il futuro professionale o politico dei suoi funzionari si possono constatare anche nel funzionamento dell'Oms, che nessuno ancora osa criticare per non intaccare il suo già dubbio prestigio nel pieno del terremoto sanitario.

Mentre in Europa la situazione sembra essersi più o meno rimessa in carreggiata, le notizie che arrivano dal continente americano sono preoccupanti e devastanti come non mai. Con l'eccezione del Canada e la timida parentesi dell'Uruguay, il Nord e il Sud di quello che un tempo veniva chiamato il Nuovo Mondo stanno subendo un autentico tsunami, che colpisce non solo la salute e il benessere della popolazione, ma anche il futuro delle sue istituzioni e i suoi modelli di convivenza.

Questa, in realtà, è una deriva che assilla tutti noi. I poteri eccezionali che i governi hanno assunto per combattere il virus, insieme al protezionismo e all'esaltazione nazionalista alimentati dalla paura, finiranno per erodere principi basilari della democrazia rappresentativa, se non faremo attenzione.

L'esplosione di proteste popolari alimentata di recente dalle rivendicazioni contro il razzismo sono un altro indice della disaffezione verso il sistema, soprattutto da parte delle nuove generazioni. In questo scenario, le tendenze antiglobalizzazione guadagnano adepti ogni giorno sia alla destra che alla sinistra dello schieramento politico, e alcuni si affrettano già a decretare la fine del processo.

Ma la loro ambizione è inutile e strana: non si può vincere una minaccia globale senza azioni globali e la nuova civiltà sarà quello che sarà, ma senza dubbio sarà caratterizzata da due vettori fondamentali: la società digitale e i cambiamenti climatici. Sono due sfide globali per il futuro dell'umanità ed è impossibile costruire qualcosa di positivo al riguardo partendo dall'isolazionismo e dall'autarchia.

Quando i governi di tutto il mondo impareranno questa cosa e si renderanno conto che la nuova normalità non è nuova e non sarà nemmeno normale, i cittadini potranno recuperare la fiducia e perfino l'ottimismo verso il futuro, ed essere realmente padroni del loro destino.
(Repubblica - Traduzione di Fabio Galimberti )

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