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Il carcere e il bisogno di ascoltare

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

La vicenda giudiziaria che porta in carcere una persona è come un tornado, una cosa pesantissima che rompe gli equilibri personali, famigliari, di lavoro. È un fatto traumatico per tutti ma, in particolar modo, per chi varca la soglia del carcere la prima volta. In genere, l’arrestato ha bisogno di confrontarsi con operatori non istituzionali, che possano “ascoltare la sua verità”; è un bisogno profondo. Il sacerdote è tra le figure più ricercate, non tanto per l’aspetto strettamente religioso, quanto come persona di fiducia con cui poter “parlare liberamente” “sfogarsi”. In carcere, per il sacerdote, il dialogo è prima di tutto “ascolto”, che permette al detenuto di fare una specie di riabilitazione di sé di fronte ad un soggetto che rappresenta la Chiesa, la società civile, il mondo esterno dal quale è venuto. In sintesi, direi che i primi giorni della carcerazione sono un momento privilegiato per il sacerdote perché getta le basi per un rapporto che si può prolungare per tutto il tempo che il detenuto rimane in carcere.


Parlando con i detenuti, capisci che tutti hanno la consapevolezza che ciò che si è compiuto non è giusto. Ma accanto c’è l’infinito elenco di ragioni che vengano portate come giustificazione del proprio operato. “Io sono la pecora nera della famiglia”, “manca il lavoro”, “dovevo procurare il necessario per la famiglia”, “è tutta colpa della droga”…

Stando all’esperienza, il pentimento, come presa di coscienza che la propria azione delinquenziale è un male che porta danno agli altri, è frutto di una maturazione che può avvenire per tanti motivi. Uno è la “svolta spirituale”. Se interviene una riscoperta profonda della fede, che apre un percorso di conversione, allora è facile veder emergere quel sentimento di vero rammarico verso i comportamenti antisociali avuti. Se così non è, c’è sempre una difesa del proprio operato, che porta a non assumersi responsabilità.


Ci sono poi alcuni, delle vere e proprie mosche bianche, che riconoscono nel carcere un motivo di “salvezza”. È possibile sentire qualche giovane, distrutto dalla droga, che afferma che se non fosse intervenuto l’arresto la sua vita sarebbe stata a rischio, perché libero non avrebbe avuto la forza di fermarsi e lo sbocco sarebbe stato la morte per overdose.

È risaputo che in prigione c’è come un ritorno al “religioso”. Colpiscono dietro le sbarre le espressioni esterne di religiosità: corone al collo, richieste di benedizioni, partecipazione alle liturgie. Per capire un po’ il fenomeno, non va dimenticato cosa avviene in una persona arrestata.


Lo stato in cui viene catapultata la mette in una condizione particolare. Se potessimo sintetizzarla in uno scatto fotografico, avremmo questa immagine: una persona sola, nuda e con le spalle al muro, senza più le sicurezze di quando era libera: la famiglia, il ruolo sociale, il lavoro. Quando il portone di ferro si chiude alle spalle si apre, per i più, un specie di “recupero” di quello che ha dentro, un ripensamento che abbraccia anche la sfera religiosa. Anche se per molti il ritorno alla religione termina una volta fuori del carcere, quel momentaneo contatto con il mondo della fede può essere un seme che, nel futuro, crescerà e darò frutti. I piani di Dio possono passare anche attraverso il cigolio dei portoni degli istituti di pena.


Per alcuni il portone del carcere si apre, per i condannati all’ergastolo no. Dobbiamo dirci con molta chiarezza e coraggio che l’ergastolo è un istituzione che fa a pugni con lo spirito della Costituzione, espresso soprattutto nell’art. 27. La pena deve tendere alla riabilitazione del condannato. Si profila “un dopo” della condanna nel quale la persona riprende il suo ruolo nella società. Nella condanna all’ergastolo, questo viene escluso.


Parlando con degli ergastolani ho appreso che vivono una fase molto critica dopo la condanna definitiva. Nelle fasi processuali antecedenti c’è sempre la speranza che possa esservi un cambiamento. La parola “fine” ad ogni illusione si ha quando scende la coltre nera sulla vita: Mai più libero! A questo punto, sono possibili due atteggiamenti. Il primo di “chiusura”, una forma di esasperazione, celata o manifesta, che si deposita nell’animo e dà una tonalità a tutte le espressioni della vita. L’altro è l’accettazione dello “status” di ergastolano dove si cerca di valorizzare quello che si ha: la vita, i talenti, le opportunità offerte all’interno dei penitenziari. Ci si organizza psicologicamente a sopravvivere, aprendosi a quanto quel mondo ristretto mette a disposizione. Si scrive, si pittura, si lavorano i campi, si fa teatro. È già tanto per chi ha tutte le porte chiuse.

 

(Vittorio Trani / cappellano a Regina Coeli)

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