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Veronesi: C'è un posto del mondo (e siamo noi)

Riccardo Veronesi Ansa - Tino Romano
Pubblicato il 01-04-2020

L'isolamento, la paura, le colpe e il lutto

C'è un posto del mondo in cui il mondo non è più il mondo e questo posto è qui. Nella nostra casa, per chi ha una casa, il mondo non è più il mondo. Nelle stanzucce spoglie dove muoiono i vecchi, cento volte al giorno, e poi altre cento, e poi ancora cento, il mondo non è più il mondo - e sono i nostri genitori già morti che muoiono di nuovo, tutti insieme, tutti i momenti, ancora e ancora, muoiono di nuovo, mansuetamente, in silenzio, a pancia in giù, perché non sappiamo proteggerli, anche se fino a ieri, quando il mondo era il mondo, quando sono morti per la prima volta, lo sapevamo fare, e lo facevamo, e ci toglievamo il sonno, e il pane dalla bocca, per la gioia di proteggerli; c'è questo posto maledetto del mondo nel quale i nostri vecchi muoiono, e noi non sappiamo nemmeno dove mettere i loro corpi, dove ammassarli, dove bruciarli, dove seppellirli, e questo posto è qui.

Negli ospedali strapieni, nelle chiese vuote, nelle piazze deserte, nei parchi chiusi con le catene, nei negozi serrati, nei supermercati presi d'assalto, nelle code ordinate e nelle code disordinate, nelle carceri sovraffollate, dove nessuno può più ricevere il pacco con gli spaghetti, le sigarette e il caffè da dividere coi compagni di cella che non hanno nemmeno quello; nelle scuole senza caciara, nei campi di calcio senza pallone, nelle autostrade senza macchine, negli aeroporti senza viaggiatori, nei confessionali senza peccatori, e nell'immagine blu di Papa Francesco che prega, solo, al vespro, sotto la pioggia di marzo - in quella Piazza San Pietro senza fedeli il mondo non è più il mondo.

Nello strazio della voce di Bob Dylan che riemerge dopo otto anni, e canta per diciassette minuti la morte di un padre che non abbiamo saputo proteggere, e tutti noi piangiamo per quella voce, ma quella voce non è più quella voce, e quello strazio non è più quello strazio e quel padre non è più quel padre, perché il mondo non è più il mondo.

Nei numeri dati a cazzo di cane, alle sei di pomeriggio, ogni giorno, prima i guariti, per dare un segnale di speranza, poi i malati e infine, purtroppo, i deceduti, e i deceduti sono mille, sono mille, i deceduti, in un solo giorno, sono mille; nel paragone con l'essere in guerra, siamo in guerra, è una guerra, bollettino di guerra, e invece non siamo affatto in guerra, perché non ci viene chiesto di combattere né di dare i nostri figli alla patria, ma solo di restare tappati in casa, di restare lontani, di restare separati, di temere gli uni gli altri, di diffidare gli uni degli altri; nell'ordine di non indossare la mascherina, poi di indossarla, sì, ma non quella, quell'altra, di lasciare quella a medici e infermieri, come se a loro l'avessimo strappata dal volto, e invece l'abbiamo comprata in farmacia quando ancora dicevano che non serviva….(Corriere della Sera)

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