Philippe, l’incantatore di un’Italia da Grand Tour
Con le sue parole sapeva far entrare nei luoghi d’arte anche i meno attrezzati, per farceli restare.
Sosteneva Italo Calvino che «la leggerezza è un dono che bisogna sapersi conquistare » e Philippe Daverio è stato l’incarnazione di questa sentenza. Non a caso sta sbocciando, ora dopo ora, un raro lutto collettivo, trasversale e profondo.
Daverio, da critico e da divulgatore, ha lasciato il segno. Oggi a Milano nella Sala della Passione, che s’affaccia sul cortile d’onore di Brera, si tiene la sua camera ardente. È una coincidenza, ma i luoghi designati per l’addio sembrano la sintesi spirituale di questo settantenne anticonformista e borghesissimo, eretico e amabile: la passione, quella per l’arte, la musica, la bellezza, gliela riconoscono tutti; di onore s’è coperto in ogni incarico pubblico e privato e nei moltissimi lavori che ha svolto, percorrendo l’Italia in ogni anfratto; e il palazzo Brera, con i suoi quadri e la sua scuola, aveva un posto speciale dentro il suo cuore alsaziano diventato una sorta di iper-milanese, tanto da stare tra i consiglieri di Brera e della Scala.
Da ragazzo aveva studiato pianoforte, poi anche per ragioni di famiglia s’era trovato a dover scegliere tra la carriera da concertista e qualcosa d’altro: e aveva preferito trasferirsi a Milano per andare alla Bocconi. A tesi già finita, non aveva mai affrontato la discussione. S’era aperto una propria galleria, specializzata in pittori del ’900, in via Montenapoleone (allora gli affitti erano praticabili) dopo aver collaborato, ad appena diciott’anni, ed era ritenuto un enfant prodige, nella galleria dei Blanchaert. Amava i quadri e li sapeva valutare anche sul piano economico. S’era fidanzato prestissimo con Elena Grigori, figlia di un giornalista, il quale, molto preoccupato, andò a informarsi a casa di Giorgio Bocca e Silvia Giacomoni: «Mia figlia s’è innamorata di questo tipo stranissimo...». «Ma sei fortunato, è un bravo ragazzo e avrà successo», predisse senza grande fatica “il Bocca”. Conoscendone pregi e difetti, come la distrazione: invitato infatti al matrimonio dei Bocca, Daverio s’era offerto di portare foie gras in quantità, ma arrivò elegantissimo, e con la prelibatezza richiesta, il giorno dopo: aveva sbagliato data.
Elena e Philippe hanno avuto un figlio, chiamato Sebastiano in onore di Bach. Quando la Rai gli aveva affidato vari programmi, tra i quali uno chiamato Passepartout, Daverio entrava in una chiesa, sollevava il coperchio dell’organo e spiegava con enorme tranquillità le opere d’arte suonando brani di concerti. Non aveva bisogno di “preparare” la scaletta del programma, andava a braccio e si lasciava sorprendere lui per primo da quanto vedeva e sapeva “collegare” alle conoscenze di tutta una vita. «In un passo del Talmud si dice che quando nasce un bambino arriva un angelo, gli mette una mano sulle labbra e gli fa dimenticare quello che sa. Quando è nato Philippe, quell’angelo non c’era», lo ricorda il gallerista e amico Blanchaert.
Ultimamente Daverio s’era avvicinato a “Più Europa”, ma sempre da indipendente era stato assessore tecnico della prima giunta leghista di Milano, guidata nel 1993 da Marco Formentini, altro gentiluomo poliglotta. A metterli in contatto, nella stagione di Mani Pulite, era stato un amico di entrambi, l’editore Mario Spagnol. E così Milano s’accorse, per dirne una, che a palazzo Dugnani c’è una sala musica affrescata dal Tiepolo sempre chiusa. Daverio è il primo che, in anticipo sull’Expo 2015, prova a dire che «Milano è bellissima».
Riusciva a distillare dall’alambicco delle sue cinque lingue, delle migliaia di libri letti, dai quintali di spartiti musicali che suonava a memoria, le poche parole – le più semplici, le più chiare, le più giuste – per far entrare nei luoghi d’arte anche i meno attrezzati e per farceli restare. Se ne va un incantatore irresistibile,
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