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Lo spirito di Assisi è...

Felice Accrocca
Pubblicato il 30-11--0001

Il suo incontro con il sultano Malik al-Kamil sorprende tuttora, rivelando straordinaria umanità, capacità di ascolto, comprensione e misericordia



Francesco amò il Cristo sopra tutto e sopra tutti, cosciente che il dono della fede, riscoperta in età adulta dopo un incontro lacerante - e liberante - con il dolore umano, era il più importante da lui ricevuto nella vita. Appaiono perciò riduttive e non rispondenti a verità alcune riletture attualizzanti che mirano a presentarne l'esperienza religiosa in chiave irenica, quasi che ai suoi occhi un'esperienza di fede valesse l'altra, purchè il credente fosse sinceramente amante del proprio Signore. Nondimeno, la sua esperienza di fede fu indubbiamente originale: in tempi non facili, egli percorse una via diversa, additando ai frati che “per divina ispirazione” avevano chiesto di recarsi “tra i Saraceni e altri infedeli”, un ideale di testimonianza silenziosa e pacifica, che neppure aveva nel proselitismo un suo connotato essenziale.

Più di una volta, se dobbiamo prestar fede a Tommaso da Celano, egli aveva tentato di recarsi nelle terre d'Oltremare. L'agiografo accenna infatti a due tentativi falliti (1Cel 55-56: FF 417-420) [1] prima che potesse infine realizzare il suo desiderio. Nel 1217 i frati si spinsero, per la prima volta, al di là delle Alpi (Giordano 3: FF 2325). Si trattò, tuttavia, di una missione per nulla preparata e poco fortunata; non si erano posti neppure il problema della barriera linguistica contro la quale avrebbero dovuto scontrarsi, finendo così per pagar salata la loro superficialità (Giordano 5-6: FF 2327-2328). Con tutta probabilità, fu nello stesso Capitolo del 1217 che si decise di inviare dei frati in Terrasanta; fu in quei luoghi che, grazie alla mediazione di frate Elia, Cesario da Spira - figura di primo piano nel francescanesimo delle origini - si aggregò ai frati (Giordano 9: FF 2331).

Finalmente, nel 1219 partì alla volta dell'Egitto anche Francesco, portando con sè frate Illuminato (LegM IX, 8: FF 1173). Quella dell'Assisiate fu un'esperienza che non passò affatto inosservata, lasciando tracce oltre che nelle vitae a lui dedicate nel corso del Duecento - cosa, peraltro, prevedibile -, anche in autori non francescani e perfino in fonti di matrice islamica, come riuscì a provare, ormai diversi decenni or sono, il grande islamista francese Louis Massignon. La testimonianza più antica di parte cristiana è una lettera di Giacomo da Vitry, un prelato brabantino che nel 1216 Innocenzo III aveva nominato vescovo di Acri (Tolemaide).

Nel 1220, in una lettera diretta, tra gli altri, anche a papa Onorio III, il prelato si mostrava addolorato poichè alcuni dei suoi chierici l'avevano abbandonato per aggregarsi ai Minori (FF 2211, 2213); egli manifestava pure una certa preoccupazione per lo stile di vita dei frati, che sparpagliavano “a due a due per tutto il mondo, non solo i perfetti, ma anche i giovani e gli imperfetti, che avrebbero dovuto essere domati e provati per qualche tempo sotto la disciplina conventuale” (FF 2211). Nonostante ciò, parlando del loro fondatore non potè evitare di esprimersi con una punta di ammirazione: “Il loro maestro - scrisse - che fondò questo Ordine, venuto presso il nostro esercito, acceso dallo zelo della fede, non ebbe timore di portarsi in mezzo all'esercito dei nostri nemici e per alcuni giorni predicò ai Saraceni la parola di Dio, ma con poco profitto” (FF 2212).

Non si può certo dire che la spedizione fosse stata programmata con cura. Certo, suscita sconcerto misto a tenerezza il racconto di Giordano da Giano; il cronista umbro narra infatti che Francesco, messosi alla ricerca del suo interlocutore, il sultano Malik al-Kamil, “prima di giungere a lui subì molte ingiurie e offese, e non conoscendo la loro lingua gridava tra le percosse: Soldan, Soldan. E così fu condotto da lui e fu onorevolmente accolto e curato molto umanamente nella sua malattia” (Giordano 10: FF 2332). Senza alcun interprete, senza alcuna mediazione, si lanciò nella mischia con decisione. Nessun gesto eclatante compiuto dal proprio eroe trapela dal racconto di Giordano, nessun segno celeste viene a toglierlo dalle mani degli avversari: è perciò difficile pensare che ci si trovi di fronte ad un'invenzione o rielaborazione del cronista. L'uomo di Dio appariva forte unicamente della sua debolezza, un fatto, questo, che mise in risalto anche la magnanimità del sultano.

Qualche tempo dopo, Giacomo da Vitry (nel capitolo 32 della Historia occidentalis) parlò ancora di quell'incontro, confermando sostanzialmente la sua versione precedente e, in qualche modo, pure il racconto di Giordano: “Noi abbiamo potuto vedere - scrisse - colui che è il primo fondatore e il maestro di questo Ordine [...]. Egli era stato preso da tale eccesso di amore e di fervore di spirito che, venuto nell'esercito cristiano, davanti a Damietta, in terra d'Egitto, volle recarsi, intrepido e munito solo dello scudo della fede, nell'accampamento del Sultano d'Egitto” (FF 2227). In sostanza, la spedizione si risolse con un nulla di fatto. Eppure quella partenza, che all'umana ragione può apparire sconsiderata, ha prodotto un incontro la cui lezione appare ancora capace di far meditare. A trovarsi di fronte furono due personaggi tanto diversi eppure, sotto alcuni aspetti, sorprendentemente vicini: l'uno - Francesco -, ignaro e sprovvisto di tutto, si recò nell'accampamento avversario facendo leva non sulla forza delle armi, ma “munito solo dello scudo della fede”; l'altro - il sultano Malik al-Kamil - lo accolse “onorevolmente” e lo curò “molto umanamente nella sua malattia”. In tempo di riarmo seppero ascoltarsi, facendo sì che per un breve frammento di tempo le spade venissero riposte nel fodero. Nessuno dei due abdicò alla propria fede, tuttavia quella diversità - pur profonda - non impedì l'incontro, nè fu negata la possibilità di un confronto, che si protrasse “per alcuni giorni”.

Giordano da Giano rivela che Francesco fu poi costretto a tornare in tutta fretta in Italia, a motivo delle gravi tensioni che attraversavano la sua stessa famiglia religiosa. I due vicari che aveva lasciato alla guida della comunità, Matteo da Narni e Gregorio da Napoli, avevano introdotto delle novità nelle consuetudini alimentari dei frati, accentuando un certo rigore e proibendo che si procurassero carne e latticini, i quali si potevano mangiare solo nell'eventualità che venissero loro offerti (Giordano 11: FF 2333). “Un frate laico indignato di queste costituzioni, per il fatto che quelli avessero avuto la presunzione di aggiungere alcunchè alla Regola del padre santo, prese con sè quelle costituzioni, senza l'autorizzazione dei vicari attraversò il mare” (Giordano 12: FF 2334). Francesco comprese la gravità della situazione e insieme a frate Elia, frate Pietro Cattani, frate Cesario da Spira e altri compagni, se ne tornò in Italia (Giordano 14: FF 2337).

Nel frattempo, era proseguito il lavoro di redazione del testo della Regola, che avrebbe dovuto essere presentata alla Sede Apostolica per l'approvazione papale. In quella che è passata alla storia come Regola non bollata, troviamo un capitolo che, ai fini del nostro discorso, si rivela di un'importanza decisiva. David Flood - uno dei massimi studiosi della prima Regola francescana - collega la redazione di questo capitolo (il capitolo XVI) alle decisioni del IV Concilio Lateranense [2]; a mio giudizio, tuttavia, è arduo ritenere che il testo sia stato codificato nella forma in cui è giunto fino a noi ancor prima che Francesco si recasse in terra islamica. Molto probabilmente anche per questo capitolo, come per molti altri, deve supporsi una redazione in diverse fasi, con un primitivo nucleo successivamente ampliato a seguito di concrete esperienze. D'altronde, come lo stesso Flood ha irrefutabilmente mostrato, è impossibile comprendere appieno la Regola non bollata al di fuori di questo complesso processo redazionale. Raoul Manselli può essere stato anche troppo categorico quando affermò che il capitolo, nella sua attuale formulazione, riflette “in maniera indiscutibile” la “personale esperienza di Francesco” [3], ma è pur certo che esso risulta difficilmente comprensibile al di fuori di questa prospettiva. Reputo utile, anzitutto, riferirlo nella sua integrità:

1 Dice il Signore: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. 2 Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe”. 3 Perciò tutti quei frati che per divina ispirazione vorranno andare tra i saraceni e altri infedeli, vadano con il permesso del loro ministro e servo. 4 Il ministro poi dia loro il permesso e non li ostacoli, se vedrà che sono idonei ad essere mandati; infatti sarà tenuto a rendere ragione al Signore, se in questo o in altre cose avrà proceduto senza discrezione. 5 I frati poi che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. 6 Un modo è che non facciano liti nè dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessi no di essere cristiani. 7 L'altro modo è che, quando vedranno che piace a Dio, annunzino la parola di Dio perchè essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, e nel Figlio redentore e salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poichè, se uno non sarà rinato dall'acqua e dallo Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio. 8 Queste e altre cose che piaceranno al Signore, possono dire ad essi e ad altri; poichè dice il Signore nel Vangelo: “Chi mi confesserà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli”; 9 e “Chiunque si vergognerà di me e delle mie parole, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi”. 10 E tutti i frati, dovunque sono, si ricordino che hanno donato se stessi e hanno abbandonato i loro corpi al Signore nostro Gesù Cristo. 11 E per il suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili, poichè dice il Signore: “Colui che perderà l'anima sua per me, la salverà per la vita eterna”. 12 “Beati quelli che soffrono persecuzione a causa della giustizia, perchè di essi è il regno dei cieli. 13 Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”. 14 E: “Se poi vi perseguitano in una città, fuggite in un'altra. 15 Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e vi malediranno e vi perseguiteranno e vi bandiranno e vi insulteranno e il vostro nome sarà proscritto come infame e quando falsamente diranno di voi ogni male per causa mia; 16 rallegratevi in quel giorno ed esultate perchè grande è la vostra ricompensa nei cieli. 17 E io dico a voi, miei amici: non lasciatevi spaventare da loro, 18 e non temete coloro che uccidono il corpo e dopo di ciò non possono far niente di più. 19 Guardate di non turbarvi. 20 Con la vostra pazienza infatti salverete le vostre anime. 21 E chi persevererà sino alla fine, questi sarà salvo” (FF 42-45) [4].

Il testo esprime dunque la visione francescana dell'obbedienza, che raggiunge il suo culmine nell'abbandono totale al Signore e nella consegna della propria esistenza (i frati hanno “abbandonato i loro corpi”). E' possibile, come si diceva, che la prima parte del capitolo (vv. 1-4) sia stata inserita nel testo della Regola a seguito delle decisioni del IV Concilio Lateranense (1215), tuttavia non prima del 1217, anno in cui furono istituite le provincie religiose con i relativi ministri (Anper 44: FF 1538); meno credibile è invece pensare che in quella prima inserzione fossero presenti anche le indicazioni che seguono, con l'avvertimento che duplice era il modo in cui i frati potevano “comportarsi spiritualmente in mezzo a loro” (“saraceni”, appunto, e “altri infedeli”): solo dopo essersi sincerati che ciò fosse piaciuto al Signore, essi potevano darsi a un'esplicita opera di evangelizzazione, invitando apertamente i musulmani ad abbracciare la fede trinitaria, mentre rimaneva sempre e comunque possibile l'alternativa di una vita nascosta, che non aveva altro modo di porsi se non quello di una muta e silenziosa testimonianza, senza muovere liti nè questioni e sottomettendosi ad ogni creatura.

E' importante, peraltro, tener presente che ancora per buona parte del XIII secolo l'islamismo fu percepito dagli occidentali non come una fede diversa, ma come “un'eresia del cristianesimo, connessa ad un antico fatto scismatico” [5]. Ed ha ragione Carlo Paolazzi, quando osserva che questa duplice modalità si rivela “evangelicamente, storicamente e teologicamente” commisurata “al mondo dei credenti musulmani” [6]. In ogni caso, quello che Francesco visse e insegnò in un'epoca in cui spirava forte il vento della crociata, fu lo stesso stile di presenza che molti secoli più tardi Charles de Foucauld avrebbe incarnato in quegli stessi luoghi dove Cristo aveva vissuto.

Peraltro, da quell'incontro con il mondo islamico Francesco apprese qualcosa di bello, che tentò di trapiantare in Occidente. Com'è stato ipotizzato da molti, l'invito presente nella Lettera ai reggitori dei popoli a far annunciare ogni sera, “mediante un banditore o qualche altro segno, che all'onnipotente Signore Iddio siano rese lodi e grazie da tutto il popolo” (Lrp 7: FF 213), può ritenersi infatti il tentativo d'introdurre tra le popolazioni cristiane la consuetudine dell'invito alla lode divina lanciato più volte al giorno dai muezzin dall'alto dei minareti (cf. anche 1Lcu 8; 2Lcu 6: FF 243, 248). Di Francesco si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto, fino a diffonderne - nella vulgata comune - un'immagine per molti versi non rispondente al vero: un Francesco diverso di volta in volta, a seconda dei bisogni e delle mode, che finisce per aver poco in comune con quell'uomo in carne ed ossa che Tommaso da Celano descrisse esser stato “di statura mediocre piuttosto piccola” e che, “nella sua incomparabile umiltà, mostrava tutta la mitezza possibile con tutti, adattandosi opportunamente ai costumi di ognuno” (1Cel 83: FF 465), che amava Cristo sopra ogni cosa e dal quale niente e nessuno avrebbero potuto separarlo [7].

Non c'è tuttavia bisogno di forzar troppo le fonti per asserire il suo rifiuto di una logica fondata sullo scontro religioso. In tal senso, il suo incontro con il sultano Malik al-Kamil sorprende tuttora, rivelando straordinaria umanità, capacità di ascolto, comprensione e misericordia da parte di entrambi i protagonisti, mentre lo stile di presenza proposto nel capitolo XVI della Regola non bollata rivela tutta la sua straordinaria attualità. E credo sia stata proprio tale vicenda, unitamente all'insegnamento che da essa scaturì, una delle ragioni che spinsero Giovanni Paolo II ad eleggere la città di Assisi quale sede degli incontri di preghiera per la pace. A distanza di otto secoli da quei fatti, dobbiamo riconoscere che è ancora questa la profezia per il futuro, una profezia alla quale sono chiamati, in primo luogo, tutti i figli di Abramo - ebrei, cristiani e musulmani - e tutti i credenti in Dio. Una via che rifugge dall'irenismo a buon mercato e chiede rispetto reciproco, accoglienza, conoscenza dell'altro; una via che ricerca la verità attraverso il confronto e il dialogo, aborrendo ogni forma di violenza.

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